Venezia 75 | Recensione: Tramonto (Sunset)

TRAMONTO (NAPSZÁLITA, Ungheria-Francia, 2018) di László Nemes, con Juli Jakab, Vlad Ivanov, Marcin Czarnik, Evelin Dobos, Judit Bárdos. Drammatico. **

Quando un film sceglie un titolo così esplicito, è chiaro che l’allegoria prende il sopravvento nella lettura del film stesso. Il tramonto è letteralmente quello dell’Europa, all’alba della Prima guerra mondiale, nella Budapest che si fa epicentro del declino dell’impero austroungarico, con i ceti dominanti sempre meno connessi ad un popolo disposto a tutto pur di far valere le proprie ragioni.

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Cuore di Sunset è l’incantevole Irisz, una giovane che cerca lavoro come modista nella rinomata cappelleria un tempo appartenuta ai defunti genitori. Dopo qualche titubanza, il nuovo proprietario la vuole accanto a sé, scatenando le gelosie non solo della favorita ma anche le polemiche delle altre modiste. In parallelo, Irisz si mette sulle tracce del fratello mai conosciuto, un sovversivo che ha commesso un omicidio politico.

Mentre la coppia imperiale fa visita al negozio per selezionare i nuovi cappelli da sfoggiare nelle occasioni pubbliche, il popolo si rivolta contro la nobiltà perché la rivoluzione non è un pranzo di gala. Se Budapest è il teatro della decadenza verso la dissoluzione, Irisz è il motore del cambiamento, l’angelo della morte che presagisce l’imminente senso della fine fino a farsene non solo testimone ma anche responsabile.

Con la stessa tecnica di regia sperimentata nel precedente ed acclamato Il figlio di Saul, László Nemes gira, in pellicola 35 mm per trasmettere ancor di più la percezione tattile di qualcosa che emerge dalle tenebre della Storia, con la camera a mano che sta addosso alla sua protagonista, ripresa di spalle o in primo piano, arrivando a guardare con i suoi occhi per configurare l’orrore che prende forma in quel momento.

Come in una danza macabra che accompagna alle porte della fine una nazione di morti viventi, fantocci imparruccati e inamidati senza alcuna percezione del reale se non la propria rappresentazione più comoda contro sporchi e rozzi popolani imbastarditi dalle disuguaglianze promosse dal potere, Nemes ipnotizza dentro piani sequenza avvolgente fino all’asfissia, infettando il film di qualcosa di profondamente molesto.

Il problema, però, è che, dopo più di un’ora tutto sommato suggestiva con complessi movimenti di macchina forse virtuosistici ma funzionali, questa forma così identificativa diventa la trappola del film, trasformandolo in un’operazione purtroppo già manierista nella quale l’ineccepibile qualità estetica è a limiti del formalismo. E al secondo film non è che sia proprio il massimo replicarsi con una tale programmaticità espressiva.

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Non solo perde quota nella seconda parte nella quale il portato metaforico si fa evidente fino al parossismo retorico, ma Nemes non riesce nemmeno a comunicare qualcosa di davvero autentico. Completamente avvinto dall’ipnotica quanto compiaciuta esperienza estetica, non regge dell’ampio discorso rapsodico il peso della legittima ambizione e appare ben presto destinato ad ingolfarsi in una pretenziosa rete di facili simbolismi e specchi deformanti.

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