VAN GOGH – AT ETERNITY’S GATE (U.S.A.-Francia, 2018) di Julian Schnabel, con Willem Dafoe, Rupert Friend, Oscar Isaac, Mads Mikkelsen, Mathieu Amalric, Emmanuelle Seigner, Niel Arestrup, Amira Casar, Vincent Pérez, Alexandra Stewart. Biografico drammatico. **
Non so se il “poteva andare peggio” sia un argomento critico solido, sono però abbastanza certo che, nelle mani di Julian Schnabel, poteva andare peggio. Perché il principio era altamente infiammabile: un artista contemporaneo che ha dato prova di essere un regista capace di splendidi voli (Lo scafandro e la farfalla) e immonde porcate (Miral) alle prese con un artista eterno di cui forse sappiamo tutto.
Non fosse altro per le molte volte che l’abbiamo visto sul grande schermo, Vincent Van Gogh ci pare di conoscerlo da sempre, incasellato nel gruppone trasversale e atemporale degli artisti la cui vita tormentata e scellerata è chiave di comprensione dell’opera. In più conosciamo un numero abbastanza cospicuo di quadri per essere convinti di sapere tutto di lui, come se l’opera di un autore sia la sua autobiografia.
Tuttavia, al di là della poca originalità dell’argomento, ci sembra evidente che il film nasca per offrire a Willem Dafoe la possibilità di essere Van Gogh, sfidando le incongruenze anagrafiche: la faccia dell’attore è nata per mimetizzarsi con quella del pittore e nel suo corpo provato Dafoe trova l’ennesima occasione per esplorare il cuore martoriato di un dolore inesplicabile ed inaccessibile, non lontano dalle prove fornite con Martin Scorsese e Paul Schrader.
Dafoe si porta dietro, infatti, un bagaglio di esperienze tale che il suo Van Gogh non si pone tanto come immagine d’ora in poi iconica del pittore, già emblematica di suo, ma semmai in continuità con un sofferto e lancinante percorso recitativo che non ha goduto dei giusti riconoscimenti – che probabilmente arriveranno per questa interpretazione mimetica in realtà non del tutto esaltante.
Se il film regge è grazie alla credibilità garantita dall’attore: Schnabel convince quando addomestica il suo estro, pur stando sempre addosso a Vincent – possibile che, visto dopo Sunset, non si applichino scelte di regia meno banale di una camera a mano che rincorre il protagonista? – quasi per paura di perdere il baricentro emotivo che gli permette di non eccedere col suo stile pericolosamente enfatico.
A cui non sa rinunciare nel momento più ovvio, cioè lo smarrimento un po’ onirico e un po’ delirante successivo alla recisione dell’orecchio fortunatamente lasciata fuori campo. È una marca tipica di un cinema dimostrativo più che riflessivo, illustrativo senza mai approfondire davvero al di là dell’aneddotica maudit, che attraverso schizzi ridondanti cerca di parlare ad un pubblico mediamente convinto d’esser colto e devoto all’istituto del biopic più convenzionale.
Non è che in sede di sceneggiatura un maestro come Jean Claude Carrière sia così utile, autore che per dare il meglio ha bisogno di un vitale scontro dialettico con un’altra personalità altrettanto forte, profilo che non corrisponde a Schnabel, più interessato a sbizzarrirsi in virtuosismi registici, che lascia al suo cosceneggiatore gli spazi per una serie di dialoghi singolari (quello col prete Mads Mikkelsen) che però valgono più come frammenti che nella visione organica del film.
Alla fine ciò che resta alla lunga non è la meditazione sull’arte che prende vita nella mente dell’artista, la proiezione ai cancelli dell’eterno di un talento fuori dall’ordinario (non aiutano i confronti con Paul Gauguin, mal recitato dal mal diretto Oscar Isaac), ma la dimensione privata di un fratello amorevole e comprensivo e di una locandiera inconsapevole testimone del genio.