Strano il destino di Adrian Lyne, nato come regista di spot televisivi, esploso tra gli anni ottanta e novanta tra i massimi narratori dell’eros postmoderno ed ora inattivo dal 2002, quando grazie ad Unfaithful – L’amore infedele fece guadagnare una nomination all’Oscar a Diane Lane. Eppure la sua parca filmografia (otto lungometraggi in circa vent’anni) merita l’attenzione non banale di chi ha saputo intercettare le morbosità, i desideri, la sensualità di una stagione.
Già Proposta indecente appariva fuori fuoco – per quanto la scelta di studiare il lato oscuro di Robert Redford presagisca gli imminenti scandali di Clinton… – al punto che di Lolita se ne capisce a stento la ragione, quasi un giro a vuoto avvitato sulla smodata ambizione del compendio di un’opera. Tuttavia l’estetica di Lyne è quasi un parametro per molto cinema erotico-thriller degli anni successivi, soprattutto quello meno nobile.
Se superiamo il luogo comune che lo vuole regista fin troppo avvezzo ad uno sguardo commerciale, interessato ad esaltare la dimensione patinata dei vizi privati e le pubbliche virtù della brava gente borghese, e decidiamo di negare la misoginia che parrebbe evocare l’interesse carnale per donne apparentemente ridotte a meri corpi da espugnare, abbiamo a che fare con un regista non solo abile ma anche molto intelligente.
Attrazione fatale è il suo terzo successo consecutivo dopo Flashdance (un bildungsroman proletario incrociato con l’apoteosi del videoclip) e 9 settimane e ½ (manuale sulle icone e teoria dell’alchimia sessuale) ed è passato alla storia soprattutto per la celebre scena del coniglio, che è in realtà il risultato di un incredibile lavoro di montaggio influenzato tanto dall’incessante tensione hitchcockiana quanto dal calcolo pubblicitario dell’attesa del prodotto.
Siamo nei pressi di un momento iconico, che determina il destino di un intero film e il suo riscontro commerciale: caso raro per un thriller erotico, fu il maggiore incasso dell’anno e fu candidato nientemeno che a sei Oscar: film, regia, attrice non protagonista (Anne Archer, brava nel suo smarrimento), sceneggiatura non originale (James Dearden, che adattò un suo mediometraggio del 1980), montaggio (Michael Kahn, caro a Steven Spielberg) e, naturalmente, Glenn Close.
Se Michael Douglas recita con le chiappe cascanti, mettendo a segno una delle interpretazioni più stranianti della sua vita (è ironico? ci crede? verso quale punto del mondo sono rivolti i suoi occhi vuoti?), Glenn Close cannibalizza meravigliosamente il film: conscia dell’estrema antipatia del suo personaggio psicopatico, una stalker disperata disposta a distruggere la vita del suo amore pur di poterlo avere, ne esalta la mostruosità per avvicinarla allo spettatore.
Con Douglas condivide la voracità sessuale, elemento che sembra essere perlomeno addomesticato nell’immagine più trasparente della moglie Archer, ma a differenza dell’uomo è instabile, probabilmente bipolare, in grado di elaborare clamorosi piani macabri e allo stesso tempo di dissuadersi di fronte ad un paio d’occhi innocenti. Una stronza maliarda, ma anche una fragile vittima di se stessa: e Close riesce così a risultare tanto terrificante quanto, in fondo, degna di empatia.
Tutto sommato, Attrazione fatale è un horror, in cui una donna consapevole di essere una femme fatale perché realizzata sul lavoro e padrona del proprio destino si trasforma in un vampiro. Oppure la trasformazione non esiste, è tutto chiaro dall’inizio: sono gli occhi dell’uomo-gallo (Douglas non è, in fondo, sempre Gordon Gekko?) a leggere male dall’inizio, scontando la cattiva interpretazione dovuta all’esigenza del godimento sessuale con la calata dentro un incubo senza fine.
Forse è un po’ forzato ribaltare la lettura che condanna la cattiva alla fine inevitabile, dopo aver costretto il buon padre di famiglia inciampato nel tradimento ad attraversare qualunque pena. Eppure non direi che si tratti di un film inequivocabilmente misogino, ostile all’idea che una donna possa essere autonoma e non-materna fino a spingersi verso l’orrore della metafora: piuttosto un gioco al massacro moraleggiante sulle conseguenze dell’adulterio.
La grande furbizia di un tale irresistibile intrattenimento, infatti, sta proprio nel suo progetto di celebrare la famiglia tradizionale, il matrimonio perfetto, la luce della borghesia reaganiana (ma lo stesso Douglas in La guerra dei Roses presta la sua immagine ambigua per svelarne la catastrofe). Al contempo, le sue strategie sono vecchie come il mondo e la regia di Lyne sembra addirittura rimarcare l’afflato operistico di una tragedia tutta in mano alle donne, in cui gli uomini s’illudono di muovere gli eventi.
ATTRAZIONE FATALE (FATAL ATTRACTION, U.S.A., 1987) di Adrian Lyne, con Michael Douglas, Glenn Close, Anne Archer, Ellen Hamilton Latzen, Stuart Pankin, Ellen Folley. Thriller erotico. ***