Avrebbe dovuto dirigerlo Luchino Visconti, già complice di Anna Magnani in Bellissima, eterno long seller quasi post-neorealista sulla società dello spettacolo. Poi la palla passò a Jean Renoir, reduce dall’esperienza indiana de Il fiume, coinvolto eroicamente dal principe Francesco Alliata, mitologico patron della Panaria Film esasperato dalle smanie di Visconti che nel dopoguerra si buttò in operazioni assurde, anzitutto quel Vulcano con cui la Magnani dichiarò guerra all’ex Roberto Rossellini, impegnato su Stromboli col nuovo amore Ingrid Bergman.
Cosa poteva venir fuori dal terzetto Magnani-Renoir-Alliata? A partire dall’opera di Prosper Mérimée, La carrozza d’oro è la madre di tutte le superproduzioni, un vero kolossal europeo che segna una tappa fondamentale nei rapporti cinematografici tra Italia e Francia, nonché primo esperimento continentale in Techincolor (Totò a colori fu girato nel più ruspante Ferraniacolor). E un flop. Eppure si tratta di uno dei film decisivi per capire un decennio così ricco e trascurato.
Nella fase in cui la Magnani, icona del Neorealismo, consapevole di essere una presenza molto ingombrante per registi altrettanto accentratori, appariva poco sul grande schermo, trova in Renoir un autore smanioso di scindere la sua immagine dalla grande narrazione epica del dopoguerra, incaricandola di guidarci dentro il sogno di un film atemporale e fuori dalla geografia. Scatenò polemiche per il suo presunto snaturamento, ma francamente è più insopportabile nel celebrato La rosa tatuata…
Per quanto ambientato nel diciottesimo secolo nel Perù colonizzato dagli spagnoli, infatti, La carrozza d’oro è la commedia della fantasia al potere, in cui la diva interpreta la primadonna di una compagnia di teatranti, oggetto del desiderio di tre uomini molto diversi tra loro e pietra dello scandalo perché giudicata libertina e spregiudicata sia per la professione che esercita sia per i comportamenti licenziosi.
Nel ruolo di Colombina, il personaggio femminile più centrale nella commedia dell’arte, la Magnani diventa epitome della recitazione, trovando una sponda nel capocomico impersonato da Odoardo Spadaro. E attraverso questo anziano attore che pare non essere mai sceso dal palcoscenico, Renoir mette in scena il mistero dell’atto artistico, riflettendo su quei confini sfumati tra teatro e vita che saranno dominanti nei successivi French Cancan e Eliana e gli uomini.
Sul tema della separazione dei due mondi, la posizione di Renoir è di meravigliosa trasparenza: se la trama è sciolta nella coscienza dei suoi funzionali incastri spesso meccanici, è lo sguardo del regista a determinare un’atmosfera straniante e limpidissima, immersa tra manierismo illustrativo e meditazione su finzione e realtà seguendo l’incredibile naturalezza con cui lo spazio teatrale si trasforma impercettibilmente in spazio cinematografico.
Sfondando le pareti della scatola, Renoir esplora le infinite possibilità della profondità di campo instaurando un discorso fatto di porte che si aprono e finestre aperte sul pubblico. Lo fa lasciandosi dominare dalla fantasia sulla quale si edificano la vita della compagnia, innescando un dialogo con gli interpreti della vita reale che trova il suo emblema nella lussuosa e sconsiderata carrozza.
Prima motivo di vanto, poi elemento di concertazione, quindi pegno sentimentale, infine simbolo del sacrificio, è un’immagine fondamentale per capire questo film nostalgico e decadente, trascinante e viscerale, saggio barocco e di strepitosa modernità sulle conseguenze della metatestualità, sulla scoperta di un colore furibondo e struggente, sul conflitto e l’incontro tra apollineo e dionisiaco al crocevia di una favola nel solco de Il pirata di Vincente Minnelli.
LA CARROZZA D’ORO (LE CARROSSE D’OR, Italia-Francia, 1952) di Jean Renoir, con Anna Magnani, Odoardo Spadaro, Duncan Lamont, Paul Campbell, Riccardo Rioli, Ralph Truman, Elena Altieri, Nada Fiorelli, Jean Debucort. Commedia. ****