Recensione: BlacKkKlansman

BLACKkKLANSMAN (U.S.A., 2018) di Spike Lee, con John David Washington, Adam Driver, Laura Harrier, Topher Grace, Jasper Paakkonen, Ryan Eggold, Paul Walter Hauser, Ashlie Atkinson, Corey Hawkins, Harry Belafonte, Alec Baldwin. Biografico commedia drammatico poliziesco. ****

Era prevedibile e perfino auspicabile che Spike Lee tornasse a incendiare lo schermo dopo qualche anno sottotono. Lo pensiamo perché questo clamoroso ritorno coincide con l’ascesa alla presidenza di Donald Trump, discesa negli inferi di una nazione che fino al giorno prima aveva creduto – forse un po’ troppo? – di aver voltato pagina grazie alla retorica della speranza propugnata da Barack Obama.

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Nel momento in cui la massima autorità riporta il Paese al passato peggiore, mentre i numeri della carneficina metropolitana del popolo nero salgono di giorno in giorno, Lee ritrova la motivazione e lo slancio per scendere di nuovo in campo e combattere. BlacKkKlansman è, infatti, anzitutto un gesto politico, apparentemente un pezzo facile, prodotto in grande stile dallo stesso regista con Jordan Peele, nuova star dello showbiz black dopo il trionfo di Get Out.

Il progetto è trasparente: garantire un discreto budget al più importante cineasta afroamericano per rimettere in scena un’incredibile storia vera, quella del primo poliziotto nero di Colorado Springs che riuscì ad infiltrarsi nel Ku Klux Klan. Come altri suoi colleghi, Lee individua nel non-genere espanso ed espandibile del biopic il luogo in cui riflettere sull’identità di una nazione, sulle sue contraddizioni, sulla sua continua ed incessante reiterazione del luogo comune della perdita dell’innocenza.

La “storia vera”, così vera da sembrare impossibile, si esalta nell’assenza di appigli nel nostro immaginario ad una solida iconografia dei personaggi in azione. Facendosi garante della veridicità dei fatti raccontati come in una american comedy crime story, Lee può permettersi di lavorare in un territorio vergine, facendo pace con la (da lui) detestata estetica blaxploitation («è fantasy!» si sente dire) e sfruttando alla meglio le possibilità date dai caratteri più evidenti dei tre corpi in scena.

Essendo figlio di Denzel, John David Washington trasmette il passaggio di testimone del divismo familiare e la consapevolezza di una generazione giovane che combatte una battaglia dalle forme diverse rispetto a quella dei padri; Adam Driver, icona del cinema indie, si conferma volto più contemporaneo nella narrazione di una comunità ebraica sradicata dai suoi riti ma intimamente legata al repertorio di storie pregresse; Topher Grace, capo del redivivo KKK, è la messa in ridicolo della quintessenza del wasp.

Tuttavia è proprio sulla “questione bianca” che BlackKlansman dimostra tutta la sua fiammeggiante intelligenza, non cadendo nella trappola della banalizzazione – lo si ravvede nella composita rappresentazione dei poliziotti, dove accanto al razzista repellente c’è un gruppo di bravi agenti affabili – e rappresentando “l’organizzazione” come un gruppo di imbecilli che si fanno fregare al telefono e di criminali pronti a tutto per realizzare attentati suprematisti.

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Certo, Lee mette chiaramente in scena le convergenze con la politica reazionaria della stagione di Richard Nixon per sottolineare il legame perpetuo tra queste follie delittuose e i settori più spinti dell’alt-right, ma il suo obiettivo non è tanto la denuncia documentaristica delle attività dei fanatici quanto l’apparato di allusioni e riferimenti che ne mettano in luce gli aspetti grotteschi senza sottovalutarne l’incidenza sulla realtà.

La (contro)storia americana si conferma territorio privilegiato per il regista che frattanto ritrova uno straordinario senso del ritmo, rivelando in ogni immagine una potenza davvero incandescente: l’incipit con Alec Baldwin, i volti estasiati durante il comizio, il magnifico montaggio che alterna la cerimonia dell’investitura (ah, quanti mascheramenti, quanti doppi, quanti giochi sull’identità…) e la rievocazione di un episodio violento alla nascita di una nazione officiato nei brividi dal mito Harry Belafonte, la telefonata finale, l’epilogo dentro la cronaca, il ritrovato gospel estremo di Prince sono i segni incendiari di uno sguardo eccezionale.

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