Gallina dalle uova d’oro per almeno un decennio, Totò fu spolpato all’inverosimile da produttori ben contenti di sfruttare la sua necessità di lavorare. Si prestò, specie negli ultimi anni, a qualunque operazione, dal musicarello al documentario sexy, seguendo sempre la stella polare della parodia, purtroppo non sempre con mestieranti all’altezza del genio e in grado di esaltarne quella preziosa miscela di malinconia e surrealismo, tragedia e farsa.
Essendo una star capace di attrarre un nutrito pubblico trasversale, fu utilizzato come frontrunner di alcune iniziative pionieristiche, indovinando quella suggestione modernista che ne fa una maschera che accorda la tradizione all’avanguardia. Negli anni in cui lo si inseriva nell’orizzonte neorealista prima nella parodia (Totò cerca casa) e poi più seriamente (Guardie e ladri), venne scelto come testimonial del nascituro film-rivista (I pompieri di Viggiù) e partner di un mostro sacro in un folle adattamento letterario (Orson Welles in L’uomo, la bestia e la virtù).
E soprattutto protagonista di Totò a colori, tra i primi esperimenti di lungometraggio a colori italiano, realizzato con il fragile sistema del Ferraniacolor assemblando cavalli di battaglia del repertorio d’avanspettacolo in una struttura funzionale più o meno coerente. Con lo stesso metodo, Carlo Ponti e Dino De Laurentiis pensarono bene di ripetere l’operazione con la stereoscopia: dopo il Totò colorato, perché non inventarsi un Totò 3D?
L’idea è semplice, quasi elementare: mettere il comico al centro di un abbozzo di parodia del blockbuster dell’anno – Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. de Mille: per certi versi già una parodia di se stesso… – arruolando il Circo Togni e riciclare alcuni vecchi sketch per allungare il brodo. In realtà, infatti, la presa in giro si limita al ruolo di James Stewart: Totò è qui un criminale camuffatosi da clown per sfuggire alla polizia.
Le esibizioni della compagnia si esaltano grazie al sistema tridimensionale, annunciato in apertura da film dal presentatore Enrico Viarisio che lancia oggetti verso il pubblico per testare la stravaganza (e come tale viene trattata: una bizzarria, una curiosità, un test). Naturalmente oggi possiamo vedere il film nella versione normale, peraltro oggi restaurata dopo mezzo secolo di sostanziale invisibilità.
È chiaro che Il più comico spettacolo del mondo valga come un oggetto di modernariato piuttosto fallimentare, sia per le reazioni dell’epoca non proprio entusiastiche di fronte all’esperienza in sala sia per l’incapacità degli sceneggiatori di legare la prima parte puramente parodica (il trapezista che si ferisce la mano, il mascheramento di Totò, le cosce delle primedonne) con la seconda composta da due lungi sketch riciclati dalla rivista (il numero del manichino già visto ne I pompieri di Viggiù e la massaggiatrice di Fermo con le mani).
Non basta il malinconico finale dominato dalla preghiera del clown per salvare questo esercizio spericolato, la cui ardita lavorazione si evince dalla recitazione assurdamente non leggerissima di un Totò forse preoccupato o infastidito dalla pesantezza dell’operazione, curata dall’anziano Karl Struss, già direttore della fotografia per Murnau e Chaplin, in un soggiorno italiano nel quale formò i colleghi all’uso del colore (con Totò anche in Un turco napoletano e Miseria e nobiltà).
Totò recita anche la mamma del clown ed è curiosamente doppiato. Appaiono, per benedire l’opera, uno stuolo di comparse-star sotto contratto dai due produttori: tra Silvana Mangano, Ettore Manni, Carlo Croccolo, Antonella Lualdi, Carlo Campanini, Isa Barzizza, Anthony Quinn il migliore è Aldo Fabrizi, che con una battuta trasmette il fatalismo disincantato verso un film squinternato e tirato un po’ via.
IL PIÙ COMICO SPETTACOLO DEL MONDO (Italia, 1953) di Mario Mattoli, con Totò, May Britt, Franca Faldini, Marc Lawrence, Tania Weber, Mario Castellani, Gianni Agus, Alberto Sorrentino, Enzo Garinei, Ignazio Balsamo, Salvo Libassi. Comico. * ½