Presentato al Festival di Cannes del 1985, Mishima – Una vita in quattro capitoli vinse il premio per il miglior contributo artistico, assegnato al direttore della fotografia John Bailey, allo scenografo Eiko Ishioka e al compositore Philip Glass. Sembrerebbe solo una curiosità, in realtà dimostra l’inadeguatezza con cui il film fu letto in un primo momento: un eccentrico biopic letterario (beh, insomma) dentro una sontuosa confezione (che splendore!).
Sottolineare questi pur indiscutibili contributi visivi – ma la forma è contenuto, qui come non mai – appare la scorciatoia più semplice per parlare di un lavoro che crea evidentemente disagio o comunque spiazzamento, sia per il peso specifico dell’affascinante quanto controverso protagonista sia per la particolare costruzione narrativa di una biografia che è anche un saggio, uno studio teorico su una figura.
D’accordo, la fotografia è impressionante nel suo passare dal bianco e nero al colore, dall’approccio documentaristico allo spettacolo della finzione, con la medesima naturale nitidezza, le scenografie cooperano magnificamente all’idea di una stilizzazione che evoca al meglio l’universo letterario senza alcuna concessione ad una messinscena leziosa o didascalica, le musiche (eseguite dal quartetto Kronos) si rincorrono con minimalistica potenza per determinare un profilo sfuggente e al contempo indubitabile…
Ma Mishima vive e pulsa della presenza dietro e attraverso la macchina da presa di Paul Schrader, che non solo realizza il suo capolavoro svincolato da qualunque pretesa commerciale – in questo senso deve ringraziare i produttori Francis Ford Coppola e George Lucas – ma anche una meditazione originale, profonda e sofferta sulla vita di un artista sublimata attraverso la sua opera.
Per rievocarne l’esistenza, Schrader, che ha scritto la sceneggiatura assieme al fratello Leonard, parte dalla fine, dall’ultimo giorno della vita dello scrittore Yukio Mishima, quando con il suo esercito privato, nato con il sostegno dalle autorità, tentò un colpo di stato al fine di riportare il Giappone all’antico splendore, salvo poi rendersi conto che nessuno era disposto a seguirlo nel folle gesto e commettere, dunque, il rituale suicidio del guerriero.
Tra il principio e l’epilogo dentro la fatale giornata, i fratelli Schrader ne riformulano la vita attraverso quattro momenti ispirati ad alcuni romanzi: Bellezza (da Il padiglione d’oro) riflette sul rapporto con la perfezione attraverso l’atto piromane di un monaco buddista; Arte (da La casa di Kyoto) racconta la relazione sadomasochista tra un giovane attore narcisista e una donna più grande; Azione (da Cavalli in fuga) mette al centro un cadetto che vuole salvare il Giappone dal capitalismo; Armonia tra penna e spada è l’apice funereo delle altre parti.
Confessioni di una maschera che non accarezzano mai l’ipotesi del santino, rappresentando gli aspetti più problematici – la famiglia non condivise l’attenzione alla bisessualità – di un samurai intellettuale e romantico privo di qualunque sentimento di conciliazione con la vita e la nazione, votato all’esecuzione di atti allegorici per dimostrare la consapevole essenza simbolica e teatrale della sua esistenza in tableaux vivants.
In fin dei conti, è l’epitome di tutti i disperati di Schrader, con le tematiche del senso di colpa e della solitudine che implodono qui in un egocentrismo senza speranza, l’emblema di un titanismo fragile ansioso di sfidare il mondo nella coscienza estrema del sacrificio (di San Sebastiano). Certo, l’aderenza pur non dogmatico alla biografia è una condizione non irrilevante, ma il film ripensa e drammatizza superbamente con libertà, coerenza, autonomia una tappa a cui l’autore sembrava predestinato.
MISHIMA – UNA VITA IN QUATTRO CAPITOLI (MISHIMA: A LIFE IN FOUR CHAPETERS, Giappone-U.S.A., 1985) di Paul Schrader, con Ken Ogata, Masayuki Shionaya, Naoko Otani, Haruko Kato, Yasosuke Bando, Hisako Manda. Biografico drammatico. ****