L’anno è lungo e i film sono tanti forse troppi. Siccome l’oblio è una facoltà attiva, cerchiamo di ricordarci cosa abbiamo visto in questi mesi del 2018. Qui potete trovare un riepilogo (e qui e qui i precedenti riepiloghi), in ordine alfabetico, dei film che ho visto tra quelli usciti nelle sale italiane tra luglio ed oggi, senza dimenticare alcuni recuperi dei film usciti tra gennaio e giugno. Prima della fine dell’anno ne farà un altro. Buona visione!
(cliccando sulla maggior parte dei titoli potete trovare le recensioni)
Achille Tarallo di Antonio Capuano. Voto: 7
Guida l’autobus e si esibisce ai matrimoni ma si mette in testa di cantare in italiano e non solo in napoletano: sacrilegio! Prima commedia di un maestro del cinema indipendente: anarchica e sbalestrata, percorsa da una trama apparentemente senza struttura e invece edificata sui suoi stessi personaggi, espressioni di una città che ha fatto del senso dello spettacolo la dolce condanna, la trappola più accogliente, la fuga verso l’assurdo.
Un affare di famiglia di Hirokazu Kore’eda. Voto: 9
Una bambina maltrattata dai genitori viene accolta in un gruppo familiare dedita ad attività losche e composto da persone legate da relazioni poco chiare. Maestro umanista, Kore’eda continua a parlare della famiglia e ripensarne i vincoli di sangue, rivelandone stavolta in maniera molto più esposta la concezione anticanonica. Dalla parte degli ultimi in una società ostile alle regole del cuore, una struggente ode alla verità e alla purezza dei sentimenti.
L’albero dei frutti selvatici di Nuri Bilge Ceylan. Voto: 8 ½
Ventenne torna in famiglia dopo la laurea in Scienze della formazione: sta scrivendo un libro, combatte col padre ludopatico, ritrova la ragazza amata, osserva i destini dei suoi coetanei, cerca di passare il concorso pubblico… Come quei libri dalla trama impossibile da riassumere, un fluviale ed allegorico puzzle di frammenti sul dolore del ritorno, la consapevolezza di essere “feriti a morte”, il dovere di fare pace con l’idea che la verità sia solo un’interpretazione…
L’amore secondo Isabelle di Claire Denis. Voto: 7-
Amori di una pittrice cinquantenne con figlia. Uno dei Frammenti di un discorso amoroso di Barthes riletto dentro un imperfetto e sentito film-saggio filosofico che è anzitutto lo studio su e di un personaggio. Una galleria di corpi maschili che permettono alla donna di sperimentare, toccare, provare, trovare, danzare. Binoche inonda lo schermo donando tutta se stessa, alternando la sensualità e l’angoscia, il turbamento e la felicità.
L’apparizione di Xavier Giannoli. Voto: 6+
Un reporter di guerra viene chiamato dal Vaticano a coordinare una commissione incaricata di accertare la veridicità delle apparizioni della Madonna in un piccolo villaggio francese. Giallo su un mistero inafferrabile, sospeso tra misticismo e mistificazione, dominato dal volto ieratico di una ragazza-santino e da quello devastato di un cronista consumato dalla vita. C’è poco di davvero spiazzante ma ha un suo fascino intrigante.
A voce alta – La forza della parola di Stéphane De Freitas. Voto: 8 ½
Come in un talent show, l’annuale torneo di oratoria dell’Università di Saint-Denis di Parigi è il banco di prova di una società che vive di parole spesso non pesate. A metà tra l’inchiesta giornalistica e il grande romanzo popolare della (giovane) Francia democratica e multietnica, senza rinunciare alle vicende emotivamente più coinvolgenti e a promuovere nuove strategie di inclusione sociale, un’ispirazione elettrizzante ed appassionante.
BlacKkKlansman di Spike Lee. Voto: 8
Incredibile storia vera del primo poliziotto nero di Colorado Springs che riuscì ad infiltrarsi nel Ku Klux Klan negli anni settanta. Un’incandescente american (comedy) crime story che è anzitutto il gesto politico di un cineasta incendiario, tornato in forma smagliante ad esplorare la controstoria di una nazione e delle sue contraddizioni. Un biopic anarchico in cui fa pace con l’estetica blaxploitation e guarda straziato al presente del razzismo arrembante.
La casa dei libri di Isabel Coixet. Voto: 6 ½
Apre una nuova libreria in un’uggiosa cittadina inglese sul mare e la cattivissima socialité locale fa la guerra alla volitiva libraia, che ha dalla sua un distinto bibliofilo misantropo. Abile operazione commerciale che si rivolge ad un pubblico preciso: la patina retrò seduce la nostalgia senza abbracciarla, il formalismo flirta consapevolmente con un minimalismo spesso di maniera. Puro film per signore, garbato e piacevole ma senza guizzi.
The Children Act – Il verdetto di Richard Eyre. Voto: 7
In crisi col marito, un giudice abituato ad affrontare casi mediatici deve decidere su un testimone di Geova minorenne a cui i genitori negano una trasfusione. Dominato da una potentissima interpretazione della Thomposn, un mélo giudiziario sulla solitudine tanto prevedibile nella sua confezione very british quanto vibrante per la densità (anche altamente politica) delle questioni che solleva con lancinante tensione morale.
Dei di Cosimo Terlizzi. Voto: 6 ½
Pur non avendo ancora l’età giusta, un diciassettenne pugliese frequenta di nascosto le lezioni all’università ed entra in un giro di amicizie neo-bohémien. Coming of age dall’ambizione visionaria e i riferimenti mitologici a puntellare i corpi in fieri, tra la scoperta della sessualità (anche fluida) alla Kechiche e il panismo di Guadagnino. Su sonorità elettroniche, uno sguardo titanico le cui radici coincidono con quelle dell’ulivo malato.
Disobedience di Sebastián Lelio. Voto: 7+
Quando muore il padre rabbino, fotografa torna nella comunità ebreo ortodossa da cui è scappata per costruirsi una vita più serena e rivive un amore mai dimenticato. Melodramma sul conflitto tra corpi bisognosi di vivere la libertà delle passioni meno negoziabili e spazi ostili alle politiche del desiderio. Un triangolo sentimentale evidente a tutti e soffocato dalla società tribale, ma anche un dialogo erotico che esplode in sequenze vorticose.
Eva di Benoit Jacquot. Voto: 4
Ex gigolò che ha raggiunto il successo come scrittore dopo aver rubato l’opera di un cliente si convince di poter manovrare una prostituta d’alto bordo evidentemente più furba di lui. Imbarazzato quanto imbarazzante remake postmoderno del classico di Losey: un pasticcio trash chic che vorrebbe essere perturbante e perverso ma finisce solo per irritare con supponente senso programmatico. Tanto seducenti quanto ridicoli Huppert e Ulliel.
Le fidèle di Michaël R. Roskam. Voto: 5 ½
Devastante storia d’amore tra una pilota di buona famiglia e un criminale in doppiopetto. In tre atti dall’ambizione romanzesca che accolgono trasversalmente i punti di vista dei protagonisti, un mélo spudorato dalle convenzionali tinte noir che s’incarta nella dicotomia tra fedeltà e fiducia e vive delle fisicità aggressive e dell’alchimia animalesca garantita dai due belli e disperati innamorati.
Girl di Lukas Dhont. Voto: 6+
Nato maschio, diventerà donna, danza. Coming of age, veicolato dalla veridicità data dalla vicinanza anagrafica del regista con la protagonista (che è un attore, clamoroso per sensibilità e misura), che si prende i suoi tempi con la fatica dell’apprendimento e la richiesta di un impegno costante e paziente come la danza impone. Cronaca di una frattura con le ritualità di un quotidiano gravoso, ma c’è troppo calcolo verso il sensazionalismo più facile.
The Happy Prince – L’ultimo ritratto di Oscar Wilde di Rupert Everett. Voto: 7-
Caduto in disgrazia dopo la detenzione per omosessualità, Oscar Wilde accompagna il proprio corpo minato dalla malattia verso il termine della notte, tra fiabe che gli ricordano la famiglia perduta e giovani amanti con cui allontanare le paure. Fortemente voluto da Everett, sia attore che regista, un ritratto sentito e decadente di un pioniere nella cui esperienza fa convergere la metafora di un sacrificio politico.
In viaggio con Adele di Alessandro Capitani. Voto: 7
Attore teatrale deve sostenere un importantissimo provino per un film ma viene chiamato in Puglia per il funerale di una vecchia fiamma… Una piccola favola buffa, sorridente e rocambolesca su un’agnizione che il padre non rivela mai esplicitamente alla figlia ritrovata: qualche ingenuità ma un garbo assoluto, Haber monumentale, Serraiocco toccante, Ferrari sboccatissima. Esile e delicato, ma come si fa a non volergli bene?
Io c’è di Alessandro Aronadio. Voto: 6-
Per eludere il fisco, uno spiantato decide di convertire il suo fallimentare b&b nel principale luogo di culto dello “Ionismo”, la religione narcisistica da lui fondata per l’occasione. Da uno spunto che vorrebbe graffiare come nella commedia all’italiana, l’ennesima dimostrazione di quanto quel passato sia passato una deleteria trappola nostalgica: una fiacca ipotesi di satira sul cialtronismo e sull’arte d’arrangiarsi che non morde quasi mai.
Io sono Tempesta di Daniele Luchetti. Voto: 5
Il finanziere Numa Tempesta deve scontare la condanna per frode fiscale ai servizi sociali presso un centro d’accoglienza. Ispirandosi fuori tempo massimo al destino giudiziario di Berlusconi, un’altra commedia che vorrebbe essere all’italiana: invano. Il racconto dei poveri traslittera fiaccamente l’estetica Brutti, sporchi e cattivi, quello d’alto bordo è banalissimo, Giallini si dimostra troppo inadeguato.
Lucky di John Carroll Lynch. Voto: 8
Omaggio all’iconico Stanton nell’ultima interpretazione della sua carriera. Nella terra desolata di una provincia profonda, la storia di un corpo anziano che si scopre fragile. Con incredibile naturalezza, un saggio di recitazione che è anche un racconto umile, semplice, morale e mai moralista, un lungo viaggio verso la notte pieno di momenti buffi e suggestioni spiritate (l’apparizione di Lynch), fino ad un finale di struggente potenza.
Mamma Mia! Ci risiamo di Ol Parker. Voto: 4
Un’operazione commerciale scopertamente furba e acchiappasoldi, sleale nel promettere qualcosa che non è: più un reboot che inventa un passato inutile per dare un senso al sequel, con il finale che accostando vecchi e giovani, vivi e morti svela tutta la sua truffaldina spudoratezza. Un jukebox dal divertimento clamorosamente irritante, ma non abbastanza camp. Nonostante Cher, incredibile donna che sfida le leggi della fisica.
A Modern Family di Andrew Fleming. Voto: 6
Consolidata coppia di maschi molto borghesi, mondani e rampanti ripensa il proprio rapporto quando piomba in casa il nipote di uno di loro. Ancora una volta, la paternità si conferma ossessione della recente commedia americana: qui si declina come rimossa, ritrovata, inconscia, ricercata. Il fantasma materno aleggia con angoscia e dona uno squarcio di commozione, ma è tutto davvero troppo prevedibile.
The Nun di Corin Hardy. Voto: 4
Anni cinquanta. Un prete viene mandato in un convento romeno per combattere il demonio che tormenta le povere suore. Espansione oziosa nell’universo del franchise The Conjuring pensata per un pubblico di bocca buona, per di più incapace di far paura davvero col suo irresistibile pur abusato mix di tenebre ed esorcismi. In realtà da leggere tutto dentro una dimensione cattolica dove credere in Dio è garanzia di salvezza.
Opera senza autore di Florian Henckel von Donnersmarck. Voto: 5+
I nazisti internano l’adorata zia; cresce e diventa artista; s’innamora di una ragazza; com’è che rispunta il medico colpevole dell’arresto della zia? Un period drama (leggi: polpettone televisivo) nazionalpopolare che banalizza un complesso pezzo di storia tedesca attraverso un album stagnante e stantio, toccando solo le emozioni primarie e il manicheismo più spudorato. Una scorrevole e quasi caricaturale narrazione piena di cose e zeppa di niente.
Il presidente di Santiago Mitre. Voto: 7 ½
Durante un summit decisivo per il futuro economico dei paesi latinoamericani, il carismatico presidente argentino (un po’ populista e un po’ tecnocrate) viene toccato da uno scandalo privato. Sontuoso, elegante ed inquietante saggio narrativo travestito da noir d’alto bordo sulla potenza dello storytelling: la commedia del potere s’incrocia con le fughe surreali e trasmette il senso di una vertigine metallica, onirica, ambigua.
Il primo uomo – First Man di Damien Chazelle. Voto: 7
Ovvero Neil Armstrong. Il senso dell’impresa per spingere la conoscenza oltre il già noto, l’incanalamento dello spirito avventuroso in uno spazio che è l’immagine di un evento nazionale, mondiale, eterno. Attraverso un’immersiva ed esaltante esperienza sonora, un claustrofobico, angosciante, analogico studio sui corpi sacrificati, una dolente e sommessa cerimonia degli addii. Spiazzante e forse irrisolto, ma a suo modo ipnotico.
La profezia dell’armadillo di Emanuele Scaringi. Voto: 6-
Contestatissimo adattamento dell’amato graphic novel di Zerocalcare, tanto detestato dagli zelanti fan dell’artista quanto in realtà meno disastroso di quanto si dica: se il problema è il goffo pupazzone dell’armadillo, ci si dica una soluzione più ingegnosa considerato il budget; se il problema è l’assenza di pathos, ci si spieghi come dipanare ancora una volta lo schema del coming of age romanocentrico. Indimenticabile il cameo di Panatta.
Respiri di Alfredo Fiorillo. Voto: 7
Recluso in una maestosa e decadente villa liberty sul lago d’Iseo popolata di presenze enigmatiche, un uomo fa i conti con un trauma mentre la figlioletta vaga misteriosamente… Uno dei ciclici ritorni del giallo all’italiana: un sontuoso thriller psicologico con una dimensione letteraria molto accentuata e una geometrica vertigine visiva plasmata dall’inquietudine del luogo. Ogni storia è una storia di fantasmi, no?
Revenge di Coralie Farget. Voto: 7
Nel bel mezzo del deserto, il weekend tra un affarista e la sua amante finisce male quando due amici di lui stuprano lei. Cercano di farla tacere uccidendola, ma la vendetta è più forte della morte. Saggio teorico di exploitation femminista, un madido, spietato, doloroso, feroce rape&revenge che gioca sull’assurdo (come fa a sopravvivere?) e sulle immagini stereotipate come in un b-movie, tra virtuosismi estetici e vertigini politiche.
Ritorno al Bosco dei 100 acri di Marc Forster. Voto: 6 ½
Christopher Robin è cresciuto, ha famiglia e lavora in un’azienda in crisi. Mentre cerca una soluzione per evitare i licenziamenti, ritrova gli amici di un tempo. Nel solco della ricognizione del suo patrimonio culturale, la Disney incrocia il fortunato modello di Saving Mr. Banks con quello di Hook: gli scambi tra realtà e finzione al crocevia del realismo magico, i colori plumbei e l’uggia inglese per un tenero home-coming (of age) mai melenso.
Il sacrificio del cervo sacro di Yorgos Lanthimos. Voto: 4
I figli di un chirurgo scontano le responsabilità del padre chirurgo. «È metaforico!» sentenzia verso il finale l’angelo sterminatore. Gli archetipi della tragedia greca introiettati in un cinema fastidiosamente virtuosistico e compiaciuto, intrappolato in un’allegoria infarcita di simbolismi spicci (il parto nell’incipit è programmatico), schematismi facili facili, sadismo troppo calcolato per perturbare, noiosi sensazionalismi… anche basta, Lanthimos, eh.
Sconnessi di Christian Marazziti. Voto: 4
Una famiglia allargata di perfetti sconosciuti isolati in uno chalet di montagna senza Internet e dunque costretti a parlare e naturalmente destinati a scannarsi. Difficile trovare qualcosa di più prevedibile a partire da uno spunto così derivativo. Ancora più moralista del blockbuster di Genovese, privo di un’ironia che non sia il raffazzonamento assembramento di luoghi comuni, caricature, cliché.
Sergio e Sergei – Il professore e il cosmonauta di Ernesto Daranas. Voto: 7
Grazie ad uno scambio di frequenze radiofoniche, un professore marxista cubano entra in contatto con un astronauta sovietico che gli chiede aiuto per poter tornare a casa. Ispirato ad una storia vera, una sorridente e malinconica commedia che costeggia il realismo magico e guarda ad un pubblico trasversale (bambini, anziani, nostalgici, digiuni di storia) con un mix efficace. Brividi nel finale struggente con Ciao, ciao, bambina in orbita.
Soldado di Stefano Sollima. Voto: 7+
Espansione dell’universo di Sicario, con Brolin e del Toro impegnati sul confine tra Messico e Texas in una guerra tra cartelli della droga innescata proprio da loro per conto del governo. Notevole trasferta di Sollima che mantiene il suo sguardo pessimista sulla violenza senza frontiere ed evitando di lasciarsi suggestionare – se non in alcune parentesi paniche – dal mito americano. Cinico, feroce, scatenato, studiatissimo.
A Star Is Born di Bradley Cooper. Voto: 6 ½
Quarta cover di uno standard americano che funziona da ottant’anni e infatti resta sostanzialmente fedele al modello, nonostante stavolta l’universo artistico sia quello del country pop. Classico melodrammone malinconico ed alcolico che vale più per l’istrionismo di Cooper (anche regista esordiente) che per la cripto-biografia di Lady Gaga messa a nudo. Una parabola su cosa sia oggi lo star system attraverso il dialogo tra realtà e finzione.
Una storia senza nome di Roberto Andò. Voto: 4
Una ghostwriter, un capolavoro perduto, i servizi segreti, la mafia, la politica, il cinema. Gioco di specchi potenzialmente infinito e alla lunga stucchevole, un cul de sac indecifrabile e sotto falso nome che si perde tra non-detti, ambiguità, doppi. Vorrebbe essere una commedia parodica e straniante dai meccanismi noir, si rivela un pasticcio bolso e autocompiaciuto ai limiti del ridicolo dall’ironia pretenziosa.
Stronger – Io sono più forte di David Gordon Green. Voto: 6 ½
Biopic dedicato a Jeff Bauman, coinvolto nell’attentato alla maratona di Boston nel 2013. Tour de force attoriale per Gyllenhaal che continua a ripensare la propria iconografia divistica attraverso la messa alla prova del corpo: nello schema della performance fisica, menomata quindi faticosa, veicola una narrazione popolare desiderosa di riconoscere figure capace di incarnare il meglio della nazione.
Sulla mia pelle di Alessio Cremonini. Voto: 7+
Gli ultimi giorni di Stefano Cucchi. Grande ritorno del cinema civile in un film che ricostruisce rigorosamente la vicenda unendo il rispetto non agiografico della vittima alla ferocia politica di una messinscena non banale. Tra Hunger e Fruitvale Station, un calvario che individua nel corpo di Cucchi una ferita nazionale. Molto lodato da tutti, Borghi adotta un esemplare metodo mimetico con dolente intelligenza.
Il tuttofare di Valerio Attanasio. Voto: 7 ½
Giovane praticante legale sottopagato si lascia sfruttare dal suo capo, avvocato nonché professore universitario losco, corrotto, cialtrone. Forse la miglior commedia italiana vista finora, non solo dominata dal miglior Castellitto da anni (gigione, istrionico, scatenato) ma anche finalmente cinica, consapevolmente ancorata alla tradizione dell’umorismo civile, pensata scientificamente con scanzonata impudenza.
Unsane di Steven Soderbegh. Voto: 8
Girata con iPhone 7 plus, la catabasi paranoica di una donna che, sentendosi perseguitata da uno stalker, si ricovera suo malgrado in una clinica degli orrori. Con la massima libertà data dalla leggerezza dello strumento, il grande autore continua la sua riflessione sullo statuto delle immagini: la distorsione come corollario dell’angoscia, la nitidezza fasulla che mal cela le verità nascosta nelle pieghe evidenti di una realtà reticente.
L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam. Voto: 7
Regista sbalestrato torna sul set dove anni prima girò un libero adattamento da Cervantes. Problema: l’attore scelto all’epoca ora si sente Don Chisciotte. Film voluto, desiderato, maledetto. Fine del cinema ovvero fine del mondo: crisi della finzione, immagini mai capaci di verità, vertiginosa e spericolata cavalcata dove conta più l’emozione che l’allucinazione per capire dove risieda il mistero di un’ossessione. Una chimera, un’utopia, un’ode al fallimento.
La vera storia di Olli Mäki di Juho Kuosmanen. Voto: 7-
Cosa avvenne prima, durante e poco dopo l’incontro per diventare campione del mondo dei pesi piuma tra un professionista americano e un fornaio finlandese. Miglior film a Un Certain Regard 2016, un simpatico esordio in b/n che, ricalcando con rispettoso gusto parodico Toro scatenato, sceglie il garbo e l’affetto per ricordare un adorabile perdente dal destino pronto per l’epica ma altresì disponibile alla commedia.
Una vita spericolata di Marco Ponti. Voto: 3 ½
Ladro per caso, finge di prendere in ostaggio un’attricetta fallita e si mette in fuga con l’amico. Zenit del bolso cinema di Ponti che ricicla senza differenziare le scorie del pulp in una commediaccia dove la pretesa del grottesco definisce i contorni del caos. Apice del fighettismo instagrammaro (i colori, le facce, le parole) applicato a quel che resta dell’effimero renziano già furbescamente mutatosi nel cinico opportunismo populista.
The Wife – Vivere nell’ombra di Björn Runge. Voto: 7
Nel 1992, in un passato parallelo a quello effettivamente accaduto, uno scrittore vince il Nobel per i romanzi che in realtà ha scritto sua moglie. Strutturato con intelligente senso teatrale in un andirivieni di flashback esplicativi, è la cronaca di una presa di coscienza, una specie di cripto-appendice sul modello Scene da un matrimonio per ragionare sullo scontro tra genio e mediocrità, retto dalla sapienza dello strepitoso Pryce e della monumentale Close.
Se si potesse passerei la vita al cinema!
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