Che fine ha fatto Kevin Reynolds? Si può dire sia stata una promessa mancata? Magari no. Ha sulla coscienza qualche disastro, ma, insomma, meglio in tv che al cinema. Può bastare la miniserie Hatfields & McCoys per condonare Tristano e Isotta o Risorto? Forse no. Però, ecco, potremmo associarlo ad una meteora: infatti, ha attraversato il cinema americano degli anni ottanta lasciando un segno che è essenzialmente il suo capolavoro.
Per di più, Fandango è il suo debutto, un film che all’epoca non ebbe alcun successo e nel corso del tempo è progressivamente diventato un cult capace di parlare a molte generazioni. Probabilmente oggi non è così visto come fino a qualche anno fa, ma sfido chiunque si trovi nella linea di confine tra adolescenza ed età adulta – peraltro via via spinta più in là – a identificarsi in una storia tanto paradigmatica quanto dentro un certo momento della storia americana.
Ciclicamente, il cinema ha bisogno di far riconoscere il pubblico (soprattutto sul lungo termine) in racconti in grado di trasmettere sentimenti ed emozioni universali malgrado siano quasi sempre sottoforma di elementi legati ad una determinata stagione. Qua lo schema è esplicito: cinque amici si mettono in viaggio per salutare due di loro che devono partire per il Vietnam, sepolcro di una generazione.
Il viaggio non ha meta benché sul confine col Messico (Reynolds è texano), come se l’assenza di una destinazione sia la spia della volontà di non interrompere quella scorribanda agli ultimi fuochi dell’adolescenza. L’epilogo di Stand by Me, altro capolavoro dell’anno dopo, accoglie una parafrasi drammatica di tutto il senso di Fandango: «non ho mai più avuto amici come quelli che avevo 12 anni. Gesù, ma chi li ha?», con l’età spostata tra di quasi un decennio eppure perfetta.
In fondo siamo sempre lì: una celebrazione dei privilegi della gioventù, una disperata fuga dalle prime responsabilità (l’arruolamento, ma anche la fine degli studi) nei termini di un’infinita reiterazione della goliardata che – dacché mondo è mondo – contiene sempre un imprescindibile fondo di malinconia, la coreografia di una cavalcata comica verso la fine dei giochi come definito dal tristissimo finale.
Un brindisi generazionale «a quello che siamo e a quello che saremo», sul canyon dove l’augurio per il futuro cade come una piuma nell’angosciante nulla, l’ipotesi di un domani che fa paura. Sullo sfondo, l’America rurale che è la mappa di un eterno ripensamento del ribellismo: dove un tempo James Dean incarnava l’evocazione gigante di un titanismo fragile, (all)ora i ragazzi ne percepiscono i piedi d’argilla quando il volo dall’elicottero potrebbe tramutarsi in tragedia.
A due anni dall’esclusione in sede di montaggio dall’altro grande film generazionale del decennio, Il grande freddo, Kevin Costner è un leader memorabile, non solo esteticamente splendido ma in grado di esercitare un carisma che soggioga gli altri membri della confraternita, vero primo ballerino di questo film iconico che nel titolo convoca una folle danza ispanica dai movimenti imprevedibili. In colonna sonora si rincorrono Pat Methney, Elton John, Carole King, Keith Jarrett…
FANDANGO (U.S.A., 1985) di Kevin Reynolds, con Kevin Costner, Judd Nelson, Sam Robards, Marvin J. McIntyre, Chuck Bush, Brian Cesak. Commedia drammatica. *** ½