La prospettiva Nevskij di Gogol’ secondo Renato Rascel? Messa così, oggi, si fa fatica a trattenere qualche sorrisetto supponente. L’operazione, tuttavia, non nasce a caso: l’attore veniva dall’ottimo successo personale de Il cappotto, che Alberto Lattuada aveva trasposto da un racconto del grande scrittore russo. Una prova drammatica, quella della star dell’avanspettacolo, la cui importanza è forse oggi meno limpida di quanto potesse risultare all’epoca.
Tutti contenti per Rascel, certo, tra i comici italiani che non hanno mancato l’appuntamento col dramma d’autore dopo l’apripista Aldo Fabrizi e un po’ negli stessi anni nei quali Totò comincia a svelare la sua dimensione più malinconica. La cosa, però, sfuggì un po’ di mano all’attore, che senza mezzi termini si montò la testa convinto di aver dato una decisiva svolta alla carriera.
Famoso l’aneddoto con Charlie Chaplin, rievocato dai perfidi colleghi: giunto in Italia in pieno maccartismo, il genio fu accolto alla stazione da una folla adorante e da Rascel stesso, che si fece avanti accreditandosi – citando un critico di allora – come “il Chaplin italiano”. Imbarazzo generale, eppure Rascel, in quella fase, si sentiva davvero tale, persuaso da qualche commentatore in buona fede ma forse inconsapevole delle conseguenze.
In un piccolo delirio d’onnipotenza, decise di debuttare alla regia riproponendo un Gogol’ italianizzato, in un momento in cui il cinema italiano ricorreva abbastanza alla letteratura (Alessandro Blasetti docet). E, per restare nel territorio russo, pensiamo che Antonio Petrucci, già direttore della Mostra di Venezia, esordì dietro alla macchina da presa nel 1954 con Il matrimonio, sorridente centone calligrafico tratto da Cechov.
I capitali ce li mise Turi Vasile, intelligente produttore democristiano, mentre il giovane Franco Rossi, responsabile della “supervisione tecnica”, fece il regista occulto. A lui, probabilmente, si devono certe vertigini sognatrici tra Busby Berkeley e Stanley Donen, come il gran ballo ripreso dall’alto con un’attenzione geometrica ai movimenti circolari delle pedine. Lo pensiamo più che altro perché Rascel, al pari di quasi tutti gli attori passati alla regia, lascia troppo spazio a se stesso.
Sacrificando buona parte della materia narrativa all’origine, La passeggiata è tutto fondato sul protagonista, una specie di character study che si riallaccia al Cappotto nel disegno di un pover’uomo, un sottoposto vittima del potere e della mentalità imperante. Se Lattuada riusciva a mediare con acidità e pessimismo, Rascel si abbandona qui ad un vortice trasognato vagamente stucchevole.
Tradendo la gelida e malinconica ambientazione originaria di San Pietroburgo, il trasferimento in una Roma ovviamente indolente, impressionata dai nostalgici colori scarlatti di Vaclav Vich, influenza il tono della storia: l’amore impossibile che un timido professorino rivolge ad una prostituta non ha niente di struggente, vi si riscontra piuttosto un patetismo perfino confinante con la misoginia, un patetismo condizionato dalla totale adesione allo sguardo del protagonista.
Valentina Cortese, di ritorno dall’esperienza hollywoodiana, porta sì in dote un fascino fatale, un’allure pressoché irraggiungibile come un’escort d’altri tempi, ma il suo personaggio più confuso che oscuro sconta una regia inerte. Va da sé che non si crede un attimo all’ipotesi sentimentale tra i due: ed è proprio qui emerge il progetto di Rascel, nel definire i contorni di un personaggio votato dapprincipio al dolore di non poter essere felice.
Nel tripudio di penne in sede di sceneggiatura (Cesare Zavattini e Giorgio Prosperi, reduci dal Cappotto, più Rossi, Vasile, Ugo Guerra e Enzo Curreli) si sente l’assenza di una rotta: un approccio indeciso, sospeso tra il sentimentalismo in gloria del povero cristo e la satira acida contro i superiori ipocriti o imbecilli, chiamata a far da veicolo all’intento dell’attore-regista e intimamente più interessata a scoprire la complessità della donna.
LA PASSEGGIATA (Italia, 1953) di Renato Rascel, con Renato Rascel, Valentina Cortese, Paolo Stoppa, Giuseppe de Martino, Francesco Mulè, Tino Bianchi. Sentimentale. **