Recensione: Un piccolo favore

UN PICCOLO FAVORE (A SIMPLE FAVOR, U.S.A., 2018) di Paul Feig, con Anna Kendrick, Blake Lively, Henry Golding, Andrew Rannells, Linda Cardellini, Rupert Friend, Jean Smart. Grottesco thriller. ***

Cliché consapevolmente enfatizzati, ralenti al limite della caricatura, flashback che negano i racconti dei protagonisti, colpi di scena incredibili. E poi: lascive canzoni francesi diegetiche e non, il meccanismo della truffa all’assicurazione che conosciamo sin da La fiamma del peccato, citazionismo spinto tra classici del giallo (I diabolici) e serialità televisiva, cast inclusivo (il marito inglese di origini asiatiche; il detective afroamericano; il “coro greco” dei genitori che presenta anche una mamma indiana). Insomma, nonostante le apparenze fuorvianti, che oggetto sia Un piccolo favore è difficile dirlo.

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Un bell’indizio è naturalmente la regia di Paul Feig, forse l’autore più interessato a raccontare il mondo femminile dell’ultimo decennio nella commedia americana (Le amiche della sposa, Corpi da reato). Col suo spirito sardonico e qui davvero anarchico, sa rendere il film assolutamente imprevedibile, giocando con le attese di un pubblico invitato a rinunciare a quel ripensamento in chiave grottesca di Gone Girl – L’amore rubato che pare annunciarsi sin dall’incipit legato alle contingenze mediatiche della cronaca nera (qui il vlog della protagonista, tutorial generalista di nicchia che diventa bollettino virale dell’indagine e veicolo per messaggi da leggere in filigrana).

Ma forse il dato più importante per capire Un piccolo favore è l’attenzione rivolta ai costumi, dovuti a Renee Ehrlich Kalfus. Prima delle varie confessioni e mezze verità che ne mettono in evidenza il lato oscuro e un’inquietante dimensione da angelo della morte, Stephanie (Anna Kendrick, sublime) è una mamma perfettina, iperattiva, premurosa, presa in giro dai genitori degli altri bambini. Tutto è già chiaro soprattutto dal guardaroba stucchevole: un maglione a pois, i calzini azzurri con gli animaletti, le toppe con la faccia del leone sul colletto della camicia, un foulard un po’ kitsch regalatole dalla zia.

Al contrario, Emily (l’abbagliante Blake Lively), mamma in carriera cinica, alcolizzata, che si presenta uscendo dall’auto come una dark lady cosciente di esserlo, indossa abiti eleganti – come d’altronde si conviene alla responsabile delle pubbliche relazioni di una maison di moda – nonché vagamente maschili. Quando, poi, torna a casa con la nuova amica e si spoglia, scopriamo che la camicia sotto la giacca è finta: il colletto, il davanti, i polsini che coprono il tatuaggio e basta. Può non nascondere qualcosa un personaggio che usa dei vestiti così ingannevoli?

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La questione raggiunge lo zenit quando Stephanie s’insedia nella casa di Emily e ne svuota il lussuoso guardaroba, mentre una delle canzoni francesi amate dall’amica scomparsa riecheggia nello spazio quasi a voler prendere possesso anche dei suoi gusti (e non solo di quelli). Se Stephanie non riesce a liberarsi dell’abito da sera di Emily quando deve accogliere il ridanciano detective (peraltro con un look molto vintage), nel momento di massima tensione – tuttavia abbastanza divertente – Emily indossa un floreale abito retrò di Stephanie, dismessi il completo bianco senza camicia e il bastone con il teschio.

In un film che lavora molto sulle differenze sociali tra le due nuove amiche – e inoltre il tema di quest’amicizia costruita dal nulla sembra raccontarci la grande solitudine di donne piene di segreti – anche tramite le rispettive case che spiegano bene le loro personalità, i costumi rappresentano forse l’aspetto più importante per capire il delicatissimo equilibrio tra generi sulla carta contrastanti e su cui si edifica questa spericolata commedia nera piena di frustrazioni, slittamenti, emancipazioni.

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