Fa impressione pensare che un film talmente moderno sia stato girato quasi settant’anni fa, restare così spiazzati di fronte ad uno dei prototipi del film-rompicapo che tanto piace oggi. Forse è un po’ forzato sostenerlo, ma come si fa a non pensare a Charlie Kaufman e a Il ladro di orchidee al cospetto di cotanto teorema narrativo peraltro straordinariamente messo in scena da quel supremo regista che era Julien Duvivier?
Picconando quello che i giovani turchi dei Cahiers du Cinema avrebbero poi chiamato “il cinema di papà”, Duvivier ed Henri Jeanson si proiettano in una coppia di sceneggiatori impegnata a confrontarsi anche ferocemente su un soggetto cinematografico. Henriette è anzitutto la sua cornice: un film sullo scrivere ed immaginare un film, la creazione di film in un film già sullo schermo, che si scrive mentre il film procede…
Certo che oggi può sembrare perfino stucchevole. Però è importante capire il contesto in cui il film appare per capirne la leggiadra potenza dinamitarda: nel bel mezzo di una delle cicliche crisi del cinema, peraltro all’indomani della guerra, questo atto d’amore si pone sia come una sapiente e gustosa meditazione sulla stasi (come uscirne?) sia come un ripensamento autobiografico a partire dall’esperienza del regista stesso, tornato in Francia dopo aver lavorato negli States.
Saltellando tra realtà e fantasia, Duvivier si sdoppia idealmente nei due sceneggiatori: Louis Seigner è quello sentimentale, in qualche modo erede della stagione del realismo poetico, uno che spera sempre nel lieto fine; Henri Crémieux è, invece, influenzato dai meccanismi della suspense, nel solco del fatalismo hitchcockiano con gli uomini perseguitati dalla sorte dentro thriller incalzanti.
Scelgono una storia che, naturalmente interpretano secondo le rispettive sensibilità: una sartina è convinta che il fidanzato le chiederà di sposarla il 14 luglio (la festa del titolo: quella nazionale ma anche il compleanno della ragazza), ma trova sulla sua strada una cavallerizza e un ladro che rischiano di mandare tutto all’aria. E proprio questa trama ci fa capire quanto questo apparente film-rompicapo ante litteram si rivela in realtà qualcosa di più complesso e raffinato.
La cornice degli sceneggiatori, in fondo, non è anch’essa un pezzo della storia che essi stessi raccontano? Ogni cosa è intrecciata in un’intelaiatura profondamente ironica, che prendendo in giro gli stereotipi del realismo poetico (il Destino!) cerca di emanciparsi dagli umori e malumori di quella stagione, proponendo una sorridente, anarchica e scatenata parodia che conferma la strepitosa leggerezza di Duvivier.
Henriette è una delizia dall’umorismo irresistibile, un vortice in cui è impossibile non sentirsi risucchiati, una geniale e spettacolare danza che migliora col tempo perché di anno in anno rivela una sua sempre più lampante carica ribelle. E perché non provare a leggere questa fuga in una Parigi ripensata in parallelo con i grandi film su realtà e finzione del coevo cinema hollywoodiano (Vincente Minnelli e Stanley Donen)?
HENRIETTE (LA FÊTE À HENRIETTE, Francia, 1952) di Julien Duvivier, con Dany Robin, Michel Auclair, Hildegard Knef, Michel Roux, Saturnin Fabre, Julien Carette, Henri Crémieux, Louis Seigner. Commedia. *****