Recensione: Moschettieri del Re – La penultima missione

MOSCHETTIERI DEL RE (Italia, 2018) di Giovanni Veronesi, con Pierfrancesco Favino, Rocco Papaleo, Valerio Mastandrea, Sergio Rubini, Margherita Buy, Matilde Gioli, Giulia Bevilacqua, Valeria Solarino, Lele Vannoli, Marco Todisco, Luis Molteni. Avventura commedia. * ½

A questo punto è chiaro che contare su un grande passato alle spalle non significa avere un avvenire altrettanto grande, come recita il sempre utile titolo della biografia di Vittorio Gassman. D’altronde si parla sempre dell’inadeguatezza del confronto tra i Risi, Monicelli, Scola, Comencini con gli eredi o presunti tali, ma quasi mai si ragiona davvero sull’irripetibilità dello star system della commedia all’italiana – ecco, sì, l’abbiamo detto.

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Non perché Gassman (parte per il tutto) sia migliore di Pierfrancesco Favino (parte per il tutto). Se volessimo liquidare tutto decantando la gloria del passato contro la miseria del presente non sarebbe solo ingiusto ma ci limiteremmo ad una visione miope e sbagliata. Il problema è un po’ più complesso, eppure riassumibile in un’espressione che potrebbe essere “arte del cazzeggio”.

In un’industria normale, un film come Moschettieri del Re sarebbe chiaramente un’ode al cazzeggio, dove col termine s’intende quell’equilibrio rarissimo e prezioso tra goliardia, cultura letteraria, leggerezza, sapienza recitativa, spiritosaggine, esperienza teatrale. Per commedia all’italiana, dopotutto, intendiamo – tra le mille altre cose – proprio quella capacità di raccontare storie serie (la guerra, il tempo che passa, l’umiliazione, il declassamento, il lavoro, la morte) con umorismo.

Fermo restando che nessuno pretende incasellamenti in generi finiti benché sempre presenti nel nostro cuore nostalgico, il guaio di Moschettieri del re è che si prende maledettamente sul serio quando dichiara in modo piuttosto esplicito di non volersi prendersi sul serio. Laddove Favino inventa un argot che incrocia assurdamente francesismi e meridionalismi, ecco che i suoi compagni d’armi si comportanti secondo le attese dei loro pubblici di riferimento.

È difficile credere ai tre pur bravissimi attori se non nei termini di una mascherata più goffa che goliardica, così poco credibile da costringere una bolsa chiusura contemporanea che vorrebbe invano trasmettere l’idea dell’inossidabile potenza delle narrazioni classiche. E no, ecco, non è nemmeno colpa degli altri comprimari: specialmente Margherita Buy e Matilde Gioli indovinano i toni buffi ma non ridanciani su cui modulare le loro interpretazioni.

No, la responsabilità è tutta di Giovanni Veronesi, che si conferma regista in piena involuzione dopo le sbornie d’incassi dello scorso decennio e la sfortunata ma comunque interessante operazione L’ultima ruota del carro. Nel solco di quella fallimentare macchina postmoderna che era Il mio west, c’è anche qui lo sguardo rivolto ad una stagione del nostro cinema sicuramente amata ma che vorrebbe imitare in modo sterile.

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Più che attorno a L’armata Brancaleone, sembra di essere più nei pressi di quei quartetti senili tipo I quattro moschettieri di Carlo Ludovico Bragaglia, che perlomeno era una farsa tradizionale non solo consapevole di essere tale ma soprattutto più divertente di questo libero adattamento parodico di Vent’anni dopo, scritto con il professor Nicola Baldoni da un Veronesi davvero fiacco nel dosare l’intrigo e gli spazi ai (troppi) personaggi (era necessaria la presenza di Valeria Solarino?).

Certo, al netto di una regia convinta di dare respiro epico grazie all’abuso di droni, fa sempre effetto vedere in un film italiano un’attenzione al sopito genere del cappa e spada, nonostante il finale serio sia del tutto stonato e l’apertura ad un sequel perfino auspicabile per ridare maggiore dignità alle intenzioni. Cosa resta? Un paio di intuizioni (il simil Q., Milady che diventa uccello), qualche ruffiano gigionismo recitativo, i colori dei riscoperti territori lucani. Un po’ pochino.

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