Ad un certo punto, nel pieno del secondo scandalo sessuale che affonda definitivamente Anthony Weiner nella campagna delle primarie democratiche per la candidatura a sindaco di New York, un’elettrice del Bronx per strada si lamenta sconsolata del circo mediatico, sostenendo di essere del tutto disinteressata alle vicende private del candidato più credibile e carismatico nell’intercettare il malcontento delle minoranze cittadine.
D’altronde, poco prima, l’abbiamo visto sventolare la bandiera arcobaleno della comunità lgbt e il vessillo ecuadoregno durante manifestazioni in suo supporto. Della verve polemica di Weiner al servizio di buone battaglie (l’Obamacare, l’istruzione pubblica) s’è avuta contezza sin dall’inizio del film, quando sale agli onori delle cronache per le veementi invettive parlamentari contro l’ipocrisia del proprio partito e le meschinità dei repubblicani.
In un altro frangente, verso il finale, dentro un negozio, Weiner litiga furiosamente con un ebreo che ne condanna l’immoralità. Benché travolto dallo scandalo, continua a combattere, ma si avverte molto bene una certa tensione masochista, come se il pubblico ludibrio sia stato reso in qualche modo parte del suo progetto politico: mettere in campo le contraddizioni del suo corpo osceno e desacralizzato per svelare l’ipocrisia di una nazione perbenista e paternalista.
Come si sa, la carriera del rampantissimo Weiner – marito della principale collaboratrice di Hillary Clinton, a sua volta in rampa di lancio per il dopo Obama – fu devastata da un’immagine hot (il pene eretto sotto le mutande) condivisa pubblicamente su Twitter. Errore fatale che scatena una serie di altre foto sconce e quasi gli costa il matrimonio, palesando un privato alquanto sporcaccione ma che da queste parti avremmo derubricato con maggiore indulgenza.
Ricalcando il comportamento tenuto dal suo capo piuttosto abituata a trattare i tradimenti del pimpante marito, la moglie si rivela per Weiner l’ancora di salvezza: anche se non si fa mai menzione di un effettivo perdono, si mette a disposizione delle ambizioni del marito, ben sapendo non solo di essere la sua garanzia di rispettabilità ma anche il tramite con il futuro potere centrale. Decisamente altri tempi, se pensiamo che il vero successore di Obama compare in un pastone di feroci commentatori delle gesta di Weiner con rara faccia di bronzo.
La possibilità di seguire giorno per giorno la campagna elettorale del candidato – forse desideroso di lavarsi la coscienza mettendosi a nudo: ed è interessante il comportamento tra l’espiazione, l’autoumiliazione e la sfida di un uomo la cui vita segreta viene a galla e data in pasto ai media – diventa in Weiner l’occasione di testimoniare in diretta il dietro le quinte di un evento che ha catalizzato il dibattito pubblico.
Pur suggerendo l’odore di un presunto complotto, essendo Weiner in testa nei sondaggi (magari porco sì, ma che fantastico animale politico), con frammenti improvvisi sulla modesta campagna del futuro sindaco Bill De Blasio, i due registi non hanno alcuna intenzione di tracciare un profilo agiografico o partigiano. E realizzano invece un ritratto complesso e stratificato, l’anatomia di un collasso, un percorso di autodistruzione che è anche uno spietato spaccato alla Scene di un matrimonio. Finale aperto oppure no.
WEINER (U.S.A., 2016) di Josh Kriegman, Elyse Steinberg. Documentario. *** ½