Oscar 1977: attore, attrice, attrice non protagonista, sceneggiatura originale (candidato per: film, regia, attore, attore non protagonista, attore non protagonista, fotografia, montaggio)
La giornalista Christine Chubbuck si era appena sparata in diretta tv quando Paddy Chayefsky, principe degli sceneggiatori americani, scrisse Network, che in Italia fu ribattezzato Quinto potere indovinando un’espressione destinata a durare nel tempo. Sulla storia della povera donna è stato realizzato ultimamente un biopic, inedito da noi, ma la vicenda era troppo emblematica e sconvolgente per non finire in un film che partiva dalla disgrazia per ampliare il discorso.
Agli Oscar del 1977, Quinto potere avrebbe dovuto fare la parte del leone, permettendo al grande Sidney Lumet di vincere l’agognata statuetta come miglior regista. E se la meritava, eccome, al terzo tentativo dopo i mancati allori per i capolavori La parola ai giurati e Quel pomeriggio di un giorno da cani. Avrebbe dovuto attendere un tardivo riconoscimento alla carriera, perché quell’anno ebbe la meglio John G. Avildsen: difficile scontrarsi contro una mitografia come Rocky, specie con un film così feroce e polemico.
Bell’annata: a prendere cazzotti dal pugile più iconico del cinema americano, manifesto necessario alla fine della stagione paranoica e della cultura del sospetto, furono nientemeno che Taxi Driver e Tutti gli uomini del presidente, nonché il dimenticato ma straordinario biopic su Woody Guthrie Questa terra è la mia terra. Tra i registi, anziché Martin Scorsese né Hal Ashby, gli europei Ingmar Bergman e Lina Wertmuller, prima donna ad essere nominata nella categoria per Pasqualino Settebellezze.
Insomma, che Quinto potere non fosse proprio il film più utile in quegli anni è ancora più evidente col senno di poi. A rivederlo oggi, in un’epoca più fluida e dove i mezzi di comunicazione sono tanto diffusi quanto oltremodo invasivi, la commedia grottesca che sottende l’intero impianto narrativo finisce per diluirsi in una tragedia crudele benché programmatica, in cui il profetismo sensazionalista lascia ben presto spazio ad una visione lucida sebbene estremista.
Film di parole e parolacce che si accumulano e si rincorrono senza colonna sonora in sottofondo a puntellare l’enfasi già di per sé piuttosto scatenata, è una storia tutta dentro i meccanismi televisivi, con Howard Beale, uno storico e scoraggiato anchorman, rimasto da poco vedovo, che, licenziato dalla società che ha acquisito il network per cui lavora a causa di un indice di gradimento troppo basso, annuncia in diretta l’intenzione di volersi suicidare una settimana dopo.
Mentre i nuovi dirigenti fiutano l’affare e cavalcano il disastro umano dell’uomo a fini commerciali e pubblicitari, Beale diventa una sorta di profeta dell’apocalisse che denuncia le storture del sistema con devastante spirito anarco-rivoluzionario di sponda populista, nonostante il vecchio amico e superiore Max cerchi di difenderlo presso i produttori barbari, tra cui Diana, giovane sanguinaria con cui intreccia una relazione extraconiugale.
Molto amato da Aaron Sorkin (si vede), Quinto potere è un film molto isterico, acido e cattivissimo, perfino sgradevole pur nella sua schematica tensione all’incazzatura dello spettatore – sobillata da quella esplosiva di Howard, quella repressa di Max e quella sulfurea e cinica di tutti gli altri, una parabola spietatamente satirica o addirittura parodica incardinata su un forte sistema a tesi che acuisce il carattere apodittico ed esemplare di un dramma decisivo per capire e glossare il decennio.
Da gran regista quel era, Lumet dirige il rigido e roboante testo di Chayefsky con la consapevolezza di doverlo mettere in scena con un approccio pregno di fiammeggiante trasparenza, organizzando la storia attraverso una serie di stanze, piccoli atti con scene madri capaci sia di acquisire senso in quanto pezzi organici di un sistema sia di valere in quanto frammenti chiamati a costituire una cronaca live (fondamentale il montaggio di Alan Heim) mediata da una voce narrante come se fossimo in un servizio giornalistico, con le luci di Owen Roizamn a sottolineare quanto la realtà sia calata nell’immagine televisiva.
Ad ottenere le statuette furono lo stesso sceneggiatore e ben tre attori. Protagonista sprezzante e durissima, Faye Dunaway coronò la carriera con un’interpretazione acuminata, quasi una macchina incapace di provare emozioni fuori dalla realtà televisiva (il rapporto col sesso, puramente strumentale e coreografia del lavoro). Sapientemente sregolato, Peter Finch, morto d’infarto poco dopo le riprese, fu il primo attore a ricevere un premio postumo: meritato, nonostante il decadente e magnifico William Holden, candidato anche lui, commentò che era difficile vincere contro un morto.
Ma la vera curiosità è tra i non protagonisti. Solo nominati Robert Duvall e Ned Beatty, con quest’ultimo impegnato in un memorabile cut di pochi minuti: vinse – forse per evocare una qualche fiducia nel mestiere giornalistico – Jason Robards, direttore illuminato di Tutti gli uomini del presidente. Vittoriosa, invece, Beatrice Straight, giustamente passata alla storia per aver vinto con un’apparizione di appena cinque minuti, la più breve di sempre: moglie tradita di Holden, nel confronto privato col marito reca in volto i segni di una dolorosa dignità restando impressa nella mente.
QUINTO POTERE (NETWORK, U.S.A., 1976) di Sidney Lumet, con William Holden, Faye Dunaway, Peter Finch, Robert Duvall, Wesley Addy, Ned Beatty, Beatrice Straight. Drammatico. *** ½
[…] direttore d’attori (ovviamente Quinto potere, ma come si fa a non pensare alla memorabile opera prima, La parola ai giurati, o all’esattezza […]
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