Recensione: Copia originale

COPIA ORIGINALE (CAN YOU EVER FORGIVE ME?, U.S.A., 2018) di Marielle Heller, con Melissa McCarthy, Richard E. Grant, Dolly Wells, Jane Curtin, Anne Deaver Smith, Ben Falcone, Stephen Spinella. Biografico drammatico commedia. *** ½

A conferma che il biopic è forse il non-genere più in divenire – e dunque interessante, nonché per certi versi davvero poco pensato – del cinema americano contemporaneo, ecco Copia originale, che non è né un dramma né una commedia: qualcosa che sta bene lì in mezzo, perché vi trova la sua misura ideale, certo, ma anche un sofisticato, raffinato, irresistibile meccanismo capace di scuotere e perturbare lo spettatore grazie proprio agli elementi costitutivi del cinema biografico.

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Proviamo a considerare i due biopic che hanno raccolto più candidature agli Oscar, nell’edizione in cui Copia originale ne ha guadagnate tre: se Vice costruisce un ritratto grottesco nero scomponendo il personaggio, Bohemian Rhapsody disinnesca del soggetto raccontato ogni aspetto che potrebbe potenzialmente inquinare l’immagine agiografica, Copia originale non fa niente per edulcorare la sua protagonista, trattandola tuttavia con un’empatia che confina con l’affetto senza sfociare nell’approvazione delle azioni criminali.

Al centro della scena, c’è Lee Israel, una scrittrice di biografie cinquantenne lesbica, sola, alcolizzata, gattara, senza lavoro, in bolletta dura. Già il dato che si occupi di raccontare le vite degli altri dovrebbe indurci a ragionare sul secondo film della bravissima Marielle Heller in un’ottica quasi metatestuale. E il discorso si fa ancora più complesso dacché non si racconta la vita di questa donna, ma un episodio che la vita gliela condiziona per sempre, sottolineando la tendenza del miglior biopic d’oggi di isolare un momento in grado di determinare e interpretare un’intera esistenza.

Lee, infatti, per sbarcare il lunario, ha l’intuizione di inventare finte lettere d’epoca scritte da personalità illustri. Il gioco le sfugge un po’ di mano e finisce per piazzare pezzi molto rari (beh, in fondo non esistevano prima…) sul mercato del collezionismo d’altissimo livello, incassando abbastanza per pagare i debiti, curare la vecchia gatta malata, sostanzialmente mantenere per qualche tempo il nuovo amico Jack Hock, un elegante e decadente spacciatore gay (l’ottimo Richard E. Grant, con un commiato da applausi).

Tratto dal fortunato memoir scritto dalla stessa Isreael, adattato con estremo acume da Nicole Holofcener e Jeff Whitty, Copia originale si rivela sin dal titolo originale un trattato sulla manipolazione, sull’affabulazione, sulla dissimulazione ai limiti del camaleontismo: Can You Ever Forgive Me?, come scopriamo nel film, era la chiusa delle lettere di Dorothy Parker. È il sintomo di un talento mimetico e non riconnciliato, capace di intercettare lo spirito nascosto degli scrittori che interpreta, quasi tutti sarcastici e brillanti, da Fanny Brice a Noel Coward.

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Nella sua grande occasione fuori dai suoi abituali circuiti, in ruolo alla Kathy Bates, Melissa McCarthy è strepitosa nel disegnare con malinconico e burbero affetto una figura complicata e dolente, convinta di aver vissuto il miglior periodo della sua esistenza trasformandosi in una criminale (ma chi ha truffato? una manica di ricchi collezionisti vanagloriosi merita di essere risarcita?), eppure incapace di non gioire per aver dimostrato di essere una scrittrice riconoscibile proprio non facendosi riconoscere.

È, perciò, una commedia triste in cui non batte mai il sole, virata dai cromatismi autunnali di Brandon Tust che trasmettono tutto lo spirito newyorkese del film. Affascinata da primi piani che rivelano un’imprevista mappa di emozioni irrisolte (l’incontro al bar nel finale), quasi sempre strutturata in rapporti binari, dal disastroso primo appuntamento a cena all’incontro struggente con l’amore perduto, in cui vediamo le due sempre di sbieco, senza valicare la barriera del pudore dei sentimenti.

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