Recensione: L’uomo che comprò la Luna

L’UOMO CHE COMPRÒ LA LUNA (Italia, 2018) di Paolo Zucca, con Jacopo Cullin, Benito Urgu, Stefano Fresi, Francesco Pannofino, Angela Molina, Lazar Ristovski. Commedia. ** ½

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Parafrasi dell’imperialismo americano: essendo stati i primi a mettere piede sulla Luna (non importa se non vero o falso, al di là dei complottismi: le immagini del first man sono più importanti delle domande di chi è rimasto sulla Terra), la Luna appartiene all’ora. Colonizzare i luoghi ma soprattutto l’immaginario come ideologia di un popolo. Insomma, cosa fare se qualcuno rivendica la Luna, in questo caso un pescatore sardo che se ne dichiara proprietario?

Due agenti reclutano un soldato che, sotto un goffo accento milanese, è in realtà di origini sarde. Per farla riemergere, arruolano un pastore emigrato che parla con gli animali e incarna in tutto e per tutto stereotipi e caratteristiche intime dell’isolano. Due film in uno ma che sono vasi comunicanti: prima la teoria, con la ricerca della rimossa identità in una specie di coming of age etnico con Benito Urgu maestro di sardità; poi la pratica, con il ritorno in patria di un senza patria che ritrova le coordinate per riconoscersi e ritrovarsi.

Punto di forza e al contempo di debolezza del favolistico e stravagante L’uomo che comprò la Luna è questa scissione netta tra le due parti. La prima, pur con un sottofondo di malinconica nostalgia garantita dall’ispida figura di Benito Urgu, disegna con abilità un’ipotesi di commedia regionale insolita per quanto non originalissima, con gli interventi della coppia di agenti Stefano Fresi e Francesco Pannofino che indovina la sintesi tra surreale e paradossale.

La seconda lascia deflagrare la malinconia anche grazie alla fotografia di Ramiro Civita, sia di giorno che di notte capace di trasmettere tanto l’incontro-scontro tra il protagonista e i suoi ritrovati compaesano con suggestioni western quanto il mistero diafano di una situazione sospesa tra sogno e realtà. Con un finale che, con un innesto storico-fantascientifico, indica la metafora politica di un racconto intriso di consapevole orgoglio sardo.

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Tuttavia, Paolo Zucca, al secondo lungo dopo L’arbitro (che nasceva da un corto: e proprio al formato del corto sembrano guardare le due parti…) non riesce sempre ad esaltare l’equilibrio tra assurdità, tenerezza e lirismo sul quale si edifica la sceneggiatura scritta con Barbara Alberti e Geppi Cucciari, abdicando talvolta a quella leggerezza fondamentale per assicurare la tenuta di una simpatica commedia piuttosto singolare che funziona più sui frammenti che in una prospettiva organica.

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