Recensione: La casa di Jack

LA CASA DI JACK (THE HOUSE THAT JACK BUILT, Danimarca-Francia-Germania-Svezia, 2018) di Lars von Trier, con Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan, Riley Keough, Ed Speleers. Thriller horror grottesco. **

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Nessuno mette in dubbio l’incidenza (che alle prese con La casa di Jack è un termine piuttosto interessante) di Lars von Tries sul cinema d’autore degli ultimi trent’anni. È un dato talmente chiaro che lui stesso provvede a sottolinearlo: se da una parte l’autocitazione è un esercizio che contestualizza il suo ultimo lavoro in una prospettiva organica, dall’altra si barrica in un universo talmente autoreferenziale da risultare perfino tenero.

Ora, il problema non è l’amministrazione di un ego abbastanza ingestibile da parecchi anni a questa parte, perché se dovessimo metterci a misurare i narcisismi degli artisti non ne usciremmo vivi. Il problema pare essere più attinente all’aridità di un terreno – l’immaginario dell’autore – che non sembra dare più frutti. Come in quel rischioso metodo in cui l’uva viene lasciata appassire per farne poi vino da dessert, La casa di Jack sembra essere l’esito di un procedimento sviluppatosi in una notte di gelo.

Nella storia del serial killer che concepisce l’omicidio come un’opera d’arte, che nello pseudonimo apodittico di Mr. Sophistication intende mettere in chiaro il progetto mortifero della manipolazione, von Trier non fa niente per nascondere ai suoi detrattori le caratteristiche che l’hanno reso autore divisivo (eufemismo), condannato alla damnatio memoriae da una comunità un po’ troppo politically correct o celebrato quale genio dalla cinefilia più intransigente.

La verità sta sempre nel mezzo e il guaio de La casa di Jack è la sterilità di un repertorio che si ripete convinto di costeggiare il parossismo della parodia e invece ripiegato su se stesso tra l’onanismo e la furbizia. Limpidamente calcolato nel sobillare le pulsioni più esplosive tanto delle anime belle turbate da omicidi sempre più spietati e al contempo assolutamente ammiccante nel suggestionare gli adepti rincorrendo lo scandalo quando non sa bene da che parte andare.

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Sono parecchi i modi per leggere il film: quello più facile e forse giusto è all’interno della filmografia di von Trier, il meno interessante è in parallelo con la vita pubblica del regista, il più intrigante è forse nel setacciare il panorama di citazioni, digressioni, intuizioni, deviazioni che parafrasano la vicenda del protagonista criminale. Penso che la questione sia un po’ meno complessa di quanto si creda, perché il problema de La casa di Jack mi sembra a monte.

Alla maniera di se stesso, von Trier si rimaneggia nel modo più comodo possibile, si diverte nel turbare gli occhi puri della borghesia proponendo un estenuante compendio del suo cinema, trova nella cornice dantesca l’apoteosi di un metodo scaltro e paraculo, tra tableau vivant che ripensano la storia dell’arte e pronti a diventare frame da spacciare sulle bacheche dei social network e metafore rimasticate dalla cultura novecentesca. Ultimo film di Bruno Ganz, che con la faccia sorniona di chi ha visto il mondo è un perfetto Virgilio: qualche lacrima alla sua uscita di scena.

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