Recensione: Il colpevole – The Guilty

IL COLPEVOLE – THE GUILTY (DEN SKYLIDIGE, Danimarca, 2018) di Gustav Möller, con Jakob Cedergren, Jessica Dinnage, Omar Shargawi, Johan Olsen. Thiller. *** ½

Si regge su una grande idea, Il colpevole – The Guilty (chissà perché distribuito col sottotitolo internazionale che porta al singolare l’originale plurale), una narrazione ad orologeria al servizio di una macchina produttiva sostanzialmente economica e soprattutto intelligente. Lo è perché la scelta dell’unico spazio in cui accade la storia non è un vincolo a misura di teorema ma si rivela occasione per dimostrare una straordinaria capacità di mettere in scena gli eventi attraverso le parole.

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Opera prima in tempo reale, premiata un po’ ovunque – premio del pubblico al Sundance e al Torino Film Festival, dove ha ottenuto anche i riconoscimenti per la chirurgica sceneggiatura e l’attore ovvero il clamoroso Jakob Cedergen, sempre in scena – poiché fruibile a tutte le latitudini, con un concept talmente forte e comprensibile da essere un potenziale oggetto di remake (e infatti arriverà la versione americana con Jake Gyllenhaal), forse anche per il solido impianto teatrale essendo praticamente un Kammerspiel, è al contempo un racconto totalmente dentro la sua città.

Non la vediamo mai, Copenaghen. La scopriamo attraverso le voci dei cittadini che chiamano il centralino della polizia per denunciare un furto o invocare soccorso. Asger ci è finito perché messo in stand by: dall’atteggiamento dei colleghi capiamo che non è stimato, certe inflessioni della voce tradiscono consapevoli scatti d’ira ingestibili, il pensiero di un processo in cui è imputato e previsto per l’indomani lo angoscia.

La telefonata di una donna che sostiene di essere stata rapita diventa per lui l’occasione per dimostrare di valere qualcosa e meritare la divisa. Indaga, contatta la figlia, scopre i problemi della famiglia, sfora il turno, si isola dagli altri e si scontra con una realtà che è solo apparentemente semplice. Il colpevole si concentra, infatti, sui contraccolpi della verità, sullo svelamento di quanto gli uomini possano essere frangibili fino a ferire chi li circonda, ponendoli nella condizione di dover mettere in discussione ogni cosa.

Se da una parte il lavoro di Gustav Möller può lasciare freddi i più scafati degli spettatori per la leggibilità di una costruzione teorica piuttosto evidente e per certi versi un po’ già vista, dall’altra è indiscutibile ed esaltante la capacità di montare la tensione mantenendosi sul piano delle parole, senza cedere mai alla tentazione di affidare a immagini altre rispetto a quelle del centro operativo (e della stanza contigua).

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Un film di voci, certo, che si rincorrono, si accavallano, si cercano, si studiano. Ma anche di luci, che danno il ritmo della narrazione, passando dal freddo blu della stasi all’oscurità tagliata dal bagliore degli schermi fino al rosso dell’allarme che colora un volto devastato. Non è poca cosa trasmettere una tale suspence non uscendo mai da uno spazio e con un protagonista praticamente fermo. Sembrerà banale, ma davvero vuoi vedere come va a finire.

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