Bologna e provincia: il romanzo criminale e poi la bassa padana. La Sardegna, prima del sacco edilizio dei ricchi del continente. La Puglia dei giovani in vacanza. La Sicilia, con tappa a Bronte fuori dal tribunale. Roma in mano ai fascisti. Lugano come fuga d’amore. Milano popolare. Perfino un’immaginaria cittadina del west. E Ferrara, naturalmente, per tre volte ma in realtà per sempre. Anche quando si nasconde sotto l’austero splendore di Mantova.
L’esordio nel lungometraggio (il memorabile La lunga notte del ’43, una delle prime rievocazioni della provincia fascista, da una delle cinque storie ferraresi di Giorgio Bassani) e il congedo (E ridendo l’uccise, alla corte degli Este), un cerchio che si chiude, un viaggio che finisce a casa, da dove tutto è iniziato. Malgrado il legame intimo e viscerale con la città natale, il cinema di Florestano Vancini è errante, esplora l’Italia e non solo per misurarsi con esperienze diverse.
Provate a trovare, nella sua opera, film che si ripetono o si somigliano. Per certi versi, sarebbe interessante individuare delle corrispondenze parallele con Damiano Damiani, da cui peraltro raccolse il testimone de La piovra alla seconda stagione (ebbene sì, questa storia dei registi di cinema che fanno grande serialità non è nuova). Negli anni Ottanta, Vancini ha fatto molta tv, con la professionalità di chi non trovava più spazio al cinema.
Nasceva come sceneggiato Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, l’ormai mitico atto d’accusa alla narrazione della storia ufficiale, la cui messinscena rivela ancor’oggi una clamorosa potenza politica. Bronte dimostra quanto questo regista – spesso molto associato al protagonista del comunque magnifico benché un po’ datato Le stagioni del nostro amore: un intellettuale di sinistra in crisi – abbia in realtà dato il meglio di sé nella prospettiva di un cinema davvero spettacolare.
Proprio come Damiani, pur con un eclettismo forse meno evidente, è su questo registro che modula il problema della verità. Da disseppellire: la rimozione di Bronte. Da scoprire: le reticenze del potere nel corale procedural mafioso La violenza: quinto potere. Da ricostruire: Il delitto Matteotti, quasi un documentario. Da rievocare: La neve nel bicchiere.
In fondo era già tutto nel principio: La banda Casaroli, l’opera seconda. Un’altra lettura del passato recente, della violenza urbana di un rigurgito fascista perpetrata da un gruppo di giovani nostalgici impegnati in eclatanti rapine e delitti gratuiti. Oltre ad apparire ancora di una sconcertante modernità estetica, questa catabasi nebbiosa in una Bologna fredda come mai evoca con rara nettezza lo smarrimento del dopoguerra dei vinti, degli espatriati, dei revanscisti.
Nel cuore nero di una vicenda indicativa di un’epoca che non sembrava molto interessata a capire l’alterità di quell’universo frettolosamente derubricato a folclore tetro e riserva indiana del male assoluto e quindi sottovalutato, Vancina trova la sua immagine più straordinaria nell’inseguimento in tram dopo l’irruzione in casa, individuandovi lo spazio in cui riflettere sugli scambi tra la cronaca nera e il romanzo criminale, entrando nelle viscere popolari di una nazione giovane non immune al rancore e sinistramente affascinata dal male (le lettere delle fan).
LA BANDA CASAROLI (Italia, 1962) di Florestano Vancini, con Renato Salvatori, Jean-Claude Brialy, Tomas Milian, Gabriele Tinti, Leonardo Severini, Marcella Rovena. Biografico drammatico noir. ****