GLORIA BELL (U.S.A., 2018) di Sebastián Lelio, con Julianne Moore, John Turturro, Michael Cera, Caren Pistorius, Holland Taylor, Rita Wilson, Sean Astin, Jeanne Trippehorn, Barbara Sukowa. Commedia sentimentale. *** ½
Non è una pratica da condannare sempre, quella del remake. In fondo i problemi sussistono nei casi in cui s’avvertono la pigrizia dell’ispirazione, la furbizia dell’usato sicuro, la comodità di riproporre schemi che hanno avuto fortuna senza il minimo sforzo di innestare qualcosa di davvero diverso o intrigante. Insomma, tutto ciò di cui ci lamentiamo di fronte ai troppi remake italiani di successi stranieri, come se nessuno qui riesca a partorire idee dignitose.
Dunque, perché pensiamo che Gloria Bell abbia un senso? Per almeno tre motivi. Il primo è l’universalità di una storia coinvolgente e avvincente che può funzionare ovunque, a partire da quel Cile che faceva da sfondo all’originale del 2013. Il secondo è l’intelligente lavoro di adattamento alla realtà americana (e alla tendenza a raccontare le storie di personaggi maturi, in corrispondenza con l’età media del pubblico) e rielaborazione dell’estetica, inoltre con quel cognome nel titolo che definisce un’identità ancora più precisa. E il terzo è Julianne Moore, meravigliosa sotto ogni aspetto.
Con ordine. Alle prese con un’operazione nata soprattutto per volere dell’attrice (anche produttrice esecutiva), affascinata dalla possibilità di misurarsi con un personaggio bellissimo, nei cui confronti si percepisce tutto l’amore di un autore che l’ha immaginata e costruita meticolosamente, Sebastián Lelio agisce su due piani. Da una parte mette in scena un auto-remake quasi scena per scena, più nel solco del doppio Funny Games di Michael Haneke che dello Psyco rifatto da Gus van Sant, e filtrato dalla calda e seducente fotografia di Natasha Braier.
Dall’altra, pur dentro il sistema dell’indie americano e senza il contesto sociale che caratterizzava Gloria (Lelio è cineasta profondamente politico che ha scelto le sfumature del melodramma come cifra espressiva), approfitta dei mezzi più ricchi per dare un’immagine più glamour alle immagini, sottolineando peraltro la solitudine dell’eroina in una città che vediamo poco ma percepiamo ostile al suo desiderio di amare e sentirsi amata. Canta da sola in auto, saluta la collega appena licenziata, non sa come comportarsi con il molesto vicino di casa che maledice di essere nato…
Come nell’originale, la chiave sta nella convinzione che, se il mondo sta esplodendo, l’importante è andarsene ballando, perché no dentro locali frequentati quasi esclusivamente da over cinquanta dove si ascoltano le hit dance di quando si era giovani e felici. Ed è qui che Gloria Bell tocca le corde del miglior dramedy americano per investire il portato emotivo e malinconico di Gloria, riuscendo a dire qualcosa di diverso nella misura in cui lo dice in un modo diverso.
Va da sé che è proprio il testo d’origine a funzionare bene, con il ritmo dato dalle interazioni della onnipresente protagonista con i suoi cari e i pochi ma decisivi estranei dei quali a malapena vediamo i volti (un marionettista, un accompagnatore squallido, la voce del vicino), ma non è da sottovalutare anche il casting affatto banale: se lo stratificato John Turturro è un partner mellifluo quanto tormentato, si segnalano soprattutto Michael Cera, figlio in attesa e sull’orlo della crisi, e Holland Taylor, saggia e disponibile madre.
Infine, il motivo d’esistere di Gloria Bell è Gloria Bell stessa ovvero una Moore in stato di grazia. Capace di mescolare il riso e il pianto nell’arco di un batter di ciglia, esibirsi con naturalezza disarmante in nudi che molte colleghe più giovani non saprebbero reggere, trasmettere un incredibile concentrato di affetto materno, erotismo consapevole, paura indefinibile, rabbia repressa, passare dall’euforia di una notte disperata ad un risveglio nell’abisso dell’imbarazzo. Con un finale danzante che è uno dei pianisequenza più belli viste al cinema di recente.