Recensione: Cafarnao – Caos e miracoli

CAFARNAO – CAOS E MIRACOLI (CAPHARNAÜM, Libano, 2018) di Nadine Labaki, con Zain al-Rafeea, Yordanos Shiferaw, Boluwatife Treasure Bankole, Nadine Labaki, Kawthar Al Haddad, Fadi Kamel Youssef, Nour el Husseini, Cedra Izam. Drammatico. * ½

Prima d’ogni altra cosa, Cafarnao vuole essere un’immagine: il dodicenne Zain che carica il piccolo Yonas in un recipiente montato su uno skateboard, con tre pentole legate ai lati un po’ come ideali ruote e un po’ ipotetici campanacci. Ben conscia della potenza iconografica del quadretto, Nadine Labaki ce lo fa vedere spesso, quasi a voler farvi confluire tutto l’impianto ideologico del progetto che sovrintende il suo film.

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In Cafarnao (addobbato da un sottotitolo italiano di rara bruttezza) ogni cosa è apparecchiata per ammiccare alla buona coscienza del pubblico occidentale più open-minded e soprattutto – ahi que dolor! – sensibilizzarlo sul tema, nel solco di un filone intramontabile e pensato per la fruizione di spettatori più disponibili all’emozione facile che davvero interessati a capire le contraddizioni e i problemi di territori tanto disagiati e massacrati.

Difficile, d’altro canto, non restare coinvolti da una storia così chirurgicamente pensata per far tribolare i cuori senza lasciare veri spazi alla riflessione, racchiusa nell’empatico sguardo di un ragazzino forse dodicenne che, come ne La storia di Elsa Morante, s’incarica d’essere la vittima di tutti i mali del mondo. Difficile, certo, ma non impossibile se non si vuole assecondare il sistema di ricatti morali predisposto da Labaki.

Difficile perché inizia in un modo abbastanza discutibile: in un’aula di tribunale, Zain, accusato di aver accoltellato un uomo, chiede di poter fare causa ai genitori, colpevoli di averlo messo al mondo. Francamente è assurdo che proprio quel bambino, con quel preciso background, possa avere una tale consapevolezza. E non si tratta nemmeno di leggere la sua parabola all’interno di un impianto allegorico, perché l’intento di Labaki è apertamente realista, pur mitigato da posticce suggestioni fiabesche.

Si resta infastiditi dalle marche pseudo-documentaristiche utilizzate per raccontare un mondo disperato ed eticamente inaccettabile, abitato da persone più incapaci di capire la vera entità delle proprie azioni che effettivamente ciniche o crudeli. E, ci siamo, sta qui il limite della fruizione da parte del fortunato pubblico occidentale: non saper comprendere quel pezzo di terra se non con gli strumenti garantiti dalle nostre anche minime conoscenze in materia di psicologia o diritti umani.

E così pure non si capisce bene, in questo calderone stucchevole, come prendere le divagazioni affidate a personaggi bizzarri (i vecchietti svaporati) o gli incontri talmente programmatici da risultare inefficaci (la bambina che vuole andare in Svezia), se non nella direzione di un romanzo magmatico va da sé memore degli archetipi dickensiani, peraltro piuttosto squilibrato a livello narrativo dentro la funzionale cornice da procedural drama.

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Non manca niente, in Cafarnao: il macrotema dell’infanzia negata, pronto al superficiale dibattito nei salotti borghesi; le questioni immigratorie e i flussi dei popoli disgraziati; i matrimoni combinati tra bambine e adulti; il traffico di bambini e lo squallore degli scafisti; le baracche sporche e senza acqua potabile, l’assenza di solidarietà tra figli di un dio minore, il carcere… Sarebbe pure un ottimo servizio perlomeno alla sensibilizzazione, se non fosse così furbescamente interessato alla bell’immagine dell’orrore (il povero Yonas con la corda legata al piedino, addormentato tra la spazzatura, che mangia latte in polvere…).

Non è un caso che l’unico momento davvero toccante di Cafarnao sia dentro la baracca di Rahil, con Zain impegnato a prendersi cura di Yonas: è grazie alla naturale spontaneità del bambino se Labaki riesce a indovinare una parentesi di grazia in un film talmente studiato a tavolino per raccogliere premi e lacrime. Come volevasi dimostrare, infatti, discreto successo mondiale e premio della giuria a Cannes 2018 e nomination a Oscar, Golden Globe, Bafta e César per il miglior film straniero. E un truffautiano fermo-immagine finale che grida vendetta.

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