BENTORNATO PRESIDENTE (Italia, 2019) di Giancarlo Fontana e Giuseppe G. Stasi, con Claudio Bisio, Sarah Felberbaum, Pietro Sermonti, Paolo Calabresi, Guglielmo Poggi, Marta Gastini, Marco Ripoldi, Antonio Petrocelli, Antonio Milo, Gigio Morra, Ivano Marescotti, Massimo Popolizio, Cesare Bocci. Commedia. ***
«Maledetti!» si sente ad un certo punto per strada, zona Parlamento, ed è proprio la voce di quella signora che urlò in diretta su Sky, alle spalle del povero giornalista. È accaduto giusto un mese fa e già lo troviamo in un film: d’altronde Bentornato Presidente è sostanzialmente un instant movie, in cui l’ottimo Fabio Bonifacci rimette in scena l’attualità preoccupandosi di mascherare sotto nomi allusivi gli attori della politica italiana.
Più che nei pressi di Natale a 5 stelle, il procedimento è più scopertamente satirico, un’allegoria portata al parossismo e ai limiti della distopia paranoia, acuendo l’acidità del precedente ma più blando Benvenuto Presidente!, dove i tre partiti dell’arco costituzionale votavano Giuseppe Garibaldi (in quanto nome unitario) per uscire dall’empasse e si ritrovavano con un montanaro ignorante ma onesto al Quirinale.
Ora che la seconda repubblica è finita, la garbata canzonatura di un sistema agonizzante non sembra più la chiave ideale per interpretare la realtà. Per intercettare questo mondo nuovo ma mica tanto, la mano è passata da Riccardo Milani – regista più dentro la tradizione della nostra commedia, come si evince da Come un gatto in tangenziale – ai più freschi Giancarlo Fontana e Giuseppe G. Stasi: ed è grazie a loro che il film si registra forse il migliore del suo genere tra quelli (troppi!) usciti in questa disastrosa stagione.
Fontana (impegnato anche al montaggio) e Stasi hanno l’eleganza della commedia internazionale, esprimono la bulimia di chi ha l’intelligenza di usare l’occasione di un buon budget garantito dalla Indigo di Nicola Giuliano per immaginare un diverso gusto dell’inquadratura, una rapidità che confina con la frenesia di un tempo agile la cui velocità è dettata dai ritmi della rete, un volteggio della messinscena che una volta si sarebbe detta pubblicitaria.
È soprattutto merito loro se questo puro “film di produzione”, in cui convergono la necessità commerciale (in questo momento molto al di sotto delle aspettative) e l’ambizione allegorica, si staglia una spanna sopra le altre, conformiste commedie dell’annata. La storia parla da sola: otto anni dopo il pasticciaccio dell’elezione al Colle, Garibaldi viene incaricato dall’attuale Capo dello Stato di formare un governo sostenuto dal Movimento dei Candidi e dal partito Precedenza Italia, mentre Sovranità Democratica si suicida politicamente.
Rispetto a Benvenuto Presidente!, il cast vanta un minor numero di attori e caratteristi di prima fascia – lì si poteva contare su un gruppo di fedelissimi di Milani, da Piera Degli Esposti a Gianni Cavina – ma probabilmente più indovinato. Due sostituzioni: la più morbida Sarah Felberbaum al posto di Kasia Smutniak e Ivano Marescotti che ringiovanisce il ruolo che fu di Omero Antonutti. Ritorni: il maggiordomo Antonio Milo, il barbone Gigio Morra, il compaesano Franco Ravera e soprattutto Massimo Popolizio e Cesare Bocci.
In un lungo e saporito cameo con il protagonista, i due riescono a raccontare tutta la disperazione degli ex potenti desiderosi di giocare un’ultima partita, alla ricerca degli spazi utili per esercitare quell’influenza che il nuovo mondo ha mutuato solo nella parte peggiore. Ebbene sì: «noi rubavamo, sì: ma verso la fine» e soprattutto «quando c’erano i soldi».
La direzione di Fontana e Stasi enfatizza gli aspetti grotteschi dei prototipi, all’interno di meccanismi che per quanto attendibili e più veri del vero sono rappresentati con un gusto della caricatura piuttosto feroce: Paolo Calabresi ringhia, impreca ed è ossessionato dalle telecamere, Guglielmo Poggi sorride ebete come il più infame dei democristiani, Marco Ripoldi mette a frutto tutta la consapevolezza del Terzo Segreto di Satira per rifare Renzi.
E Claudio Bisio? Attore che raramente ha davvero funzionato al cinema, sa di aver trovato con Peppino Garibaldi un personaggio dal potenziale iconico, che ha cittadinanza perché versione edulcorata, garbata, politically correct del buon selvaggio ripensato da Checco Zalone. Per il resto: la seconda parte si perde un po’ nell’intreccio para-thriller, la filippica terminale mette qualche dubbio, il postfinale è una zampata forse facile… però nel complesso il film c’è. E non si sottovaluti che se il film sta andando male al botteghino è perché – diciamolo – è una commedia d’opposizione.