All’indomani della morte di Agnès Varda ci è parso ancor più evidente quanto il suo cinema magmatico e ramingo fosse davvero da riscoprire. E non perché sia stata sottovalutata, anzi: specialmente negli ultimi anni, complice la sconfinata giovinezza della sua attivissima vecchiaia, è stata celebrata dai festival, omaggiata coi premi più importanti, amatissima dalla comunità dei cinefili. No, di Varda ci interessa sottolineare la sua indefinibilità.
Cineasta imprevedibile che solo una lettura pigra impone d’incasellare nel novero delle massime registe di sempre, nell’arco di oltre sessant’anni Varda ha realizzato un’opera personalissima e forse davvero senza paragoni – tra lunghi, corti e documentari, almeno una cinquantina di lavori, costantemente affascinata dalla possibilità di ripensarsi, sperimentando indefessa un’idea di futuro sempre cosciente del passato.
Secondo film da regista dopo La pointe courte, quasi un preambolo dell’imminente Novelle Vague, Cleo dalle 5 alle 7 segna la sua consacrazione, un anno più tardi di Lola, il trampolino di lancio del marito Jacques Demy. Come lui, Varda sfugge all’adesione totale al rivoluzionario movimento, preferendo, al pari di Alain Resnais e Chris Marker, giocare da battitore libero, seguendo un’idea di cinema autonoma benché vicina alla sensibilità della new wave.
La complessità del film si avverte sin dal principio, con i titoli di testa a colori che scorrono mentre le mani rugose di una donna leggono le carte dei tarocchi. Quando finiscono, la fotografia diventa in bianco e nero, catapultandoci nell’attesa di una donna della quale seguiamo quasi in tempo reale la parabola compresa nel titolo. Dalle 17 alle 19 (in realtà 18:30), ovvero la durata che separa Cleo dal responso di un decisivo esame clinico.
Anche se non ancora sappiamo ciò che l’aspetta, percepiamo un senso di morte nelle pieghe di un dolore che ha nella probabile malattia solo il sintomo estremo. Seguendo un approccio documentaristico che la coglie nel groviglio pigro di una città nel pieno della sua vivacità pomeridiana, nella struttura di una scansione cronologica a metà tra la cronaca e il romanzo, conosciamo la cantante Cleo, che rimane il baricentro del film malgrado i titoli dei tredici capitoletti abbiano il nome di personaggi dei quali ci si chiede, in quella fase, di adottare la prospettiva.
Pietra miliare del cinema francese, Cleo dalle 5 alle 7 è parecchie cose. Anzitutto un character study impressionante per la sintesi tra l’esattezza della soggettività e l’universalità del naturalismo, in cui la vicenda personale è l’occasione per riflettere su una (piccola) artista sospesa in un limbo che è sentimentale, professionale, umano, al crocevia di relazioni che hanno bisogno di svolte, corpo cangiante (la parrucca, i vestiti) di una nuova politica del desiderio.
Poi è un’esplorazione di Parigi, una città in evoluzione, che si diverte col suo immaginario della cartolina per setacciare le zone nascoste dell’ovvio: il caffè dei cuori infranti che trova la sua immagine referente nel gioco di specchi; la saletta di proiezione dove il cinema moderno si riplasma guardando al passato del muto; il giardino vuoto, con il soldatino a ricordarci che la nazione, lontano dalla permanente festa mobile, manda al macello i suoi figli in nome dell’imperialismo.
Ed è anche l’occasione di una festa del cinema, con i cammei del compositore Michel Legrand e del fotografo Raymond Cauchetier e, nel corto d’ispirazione burlesque, le apparizioni, tra gli altri, di Anna Karina, Jean-Luc Godard, Eddie Constantine, Sami Frey, Yves Robert, Jean-Claude Brialy. Una parentesi apparentemente oziosa che è in realtà la chiave d’interpretazione dell’intera vita di Cleo, un’epifany improvvisa e allo stesso tempo un nostalgico trait d’union tra ieri e oggi.
Infine, è un compendio di tutto il cinema che verrà di Varda, racchiuso in alcuni momenti dal forte potenziale iconico oppure così belli da meritare d’esser goduti anche indipendentemente, come se la struttura frammentaria sia capace di reggere anche alla prova della sua fruizione autonoma (esattezza e universalità, appunto). Tra i tanti, impossibile non straziarsi di fronte all’esecuzione della canzone, con il volto straordinario di Corinne Marchand che emerge dal fondo nero.
CLEO DALLE 5 ALLE 7 (CLÉO DE 5 À 7, Francia-Italia, 1962) di Agnès Varda, con Corinne Marchand, Loye Payen, Domenique Davray, José Luis de Villalonga, Michel Legrand, Serge Korber, Dorothèe Blanck, Raymond Cauchetier, Antoine Bourseiller. Drammatico. *****