LO SPIETATO (Italia, 2019) di Renato De Maria, con Riccardo Scamarcio, Sara Serraiocco, Alessio Praticò, Alessandro Tedeschi, Marie-Ange Casta, Ignazio Oliva, Michele De Virgilio, Pietro Pace. Gangster. ***
Può sembrare un po’ banale, ma Lo spietato è anzitutto un sound. Sin dai tempi di Nanni Moretti, il cinema italiano ci ha abituato in un’operazione di archeologia del pop nazionale con l’obiettivo di intercettare il desiderio di connettere passato e presente, la nostalgia per un tempo mai vissuto, la capacità di interpretare un tempo attraverso le sue canzoni. In realtà, qui la situazione è un po’ più complessa e gustosa e si deve alla colonna sonora sì composta ma soprattutto curata da Emiliano Di Meo e Riccardo Sinigallia.
Anziché riproporre un canzoniere fatto di brani facili o abusati per quanto indimenticabili ed entrati nel cosiddetto immaginario collettivo, la scelta è più di nicchia e mette in mezzo – tra gli altri – uno dei pezzi meno celebrati di Caterina Caselli (Cento giorni) e una struggente chicca di Peppino Gagliardi (Che vuole questa musica stasera) fino alla riscoperta del capolavoro Malamore di Enzo Carella coverizzata dallo stesso Senigallia.
Ok, forse non tutto torna, ne Lo spietato, ma l’intelligenza di questa soundtrack – dove convivono le composizioni originali dai titoli evocativi come La polizia non ci ferma, I conti non quadrano, Squadra d’assalto con i brani di repertorio – è un sintomo della bizzarria del film di Renato De Maria, regista sfuggente e discontinuo che però dimostra da anni un’attenzione schietta all’universo urbano degli anni di piombo e alle sfumature del gangster movie, qui esplorato nel suo versante brillante grazie all’ottimo contributo di Riccardo Scamarcio.
Vittima di eterni pregiudizi e in verità molto audace e abile nelle scelte degli ultimi tempi, l’attore, quasi seguendo il ritmo della colonna sonora come se fosse il protagonista di un ipotetico musical metropolitano, indovina perfettamente l’equilibrio spericolato tra buffoneria sfacciata e antieroismo crime, guardando in superficie all’estetica comunque insuperabile dell’Alain Delon versione polar, nei presupposti al poliziottesco interiore degli immigrati meridionali e creando infine un personaggio che ha pochi paragoni nel cinema italiano.
Sbagliato? Squilibrato? Forse, certo, perché no. Ma perlomeno un azzardo! Tratto da Manager Calibro 9, un dimenticato libro di Luca Fazzo e Piero Colaprico che nel titolo convoca il ricordo di quel mondo straordinariamente raccontato da Fernardo Di Leo, Lo spietato è la parabola di un calabrese trapiantato a Milano, figlio di un dissociato della ‘ndrangheta, che diventa uno dei più potenti criminali del Nord a forza di rapine, sequestri, narcotraffico.
Chiaro che il genere del film accolga cliché e motivi visti milioni di volte dai tempi di Piccolo Cesare e Nemico pubblico, ma è pur che se Lo spietato regge non è solo per la consapevolezza di non poter inventare nulla di nuovo (almeno a questo giro) ma per il divertimento – che potremmo definire perfino postmoderno sfidando la blasfemia – con cui De Maria e i suoi sceneggiatori Federico Gnesini e Valentina Strada lavorano con una materia tanto avventata.
Magari tendono a buttarla un po’ in caciara, ma è già l’incipit nel presente ad annunciare una storia da leggere sotto la lente dell’ironia, per quanto poi il tono del film sia così ondivago da spiazzare le attese di chi si era abituato ad una gangster comedy. Certo, Scamarcio sceglie il registro brillante senza incedere nel grottesco, ma attorno a lui la figura che si staglia con maggiore forza è la moglie di Sara Serraiocco, quella meno aderente alla commedia presagita da De Maria e davvero brava nel muoversi tra la visita allo psicanalista, il confronto con l’amante e la presunta vendetta.