Canzone tra le più diffuse durante il fascismo, Giovinezza era l’inno della gioventù ammaliata dal Duce che prometteva quella «primavera di bellezza» poi ripresa dai partigiani di Beppe Fenoglio; ma, chiaro, è anche uno stato della vita, che per via dell’incidenza del brano nella cultura popolare ha assunto un carattere del tutto aderente alla visione del regime. Tuttavia, qual è il modo migliore per vendicare qualcosa se non appropriandosi del lessema per depurarlo?
Ecco che allora l’onorevole socialdemocratico Luigi Preti, già antifascista e più volte ministro, diede alle stampe, nel 1964, un romanzo di sapore autobiografico, ambientato nei suoi anni verdi e che reca nel titolo proprio il primo verso della canzone fascista. Cinque anni dopo, Giovinezza, giovinezza divenne un film, prodotto dalla Titanus e diretto da Franco Rossi, reduce del clamoroso successo televisivo dell’Odissea e arrivato all’apice della sua maturità espressiva.
Strano regista, Rossi. Più sfuggente che eclettico, spesso al servizio senza riuscire ad essere davvero autore, grande professionista comunque capace di cose parecchio anodine se non insulse. Sarà forse per il momento propizio, eppure Giovinezza, giovinezza non è solo il suo miglior film, ma anche uno dei capolavori più trascurati e segreti del cinema italiano, tra gli ultimi bianco e nero a squarciare lo schermo grazie ai cromatismi del giovane Vittorio Storaro, che l’anno dopo avrebbe stupito il mondo con Il conformista.
In virtù della presenza dell’operatore, si potrebbe leggere i film in parallelo: due storie fasciste, due angolazioni dello stesso universo, due esplorazioni del passato nero della nazione. E, insomma, l’impegno di Storaro è clamoroso: un’ode alla “bella immagine” che riesce sempre ad evitare il pericolo del virtuosismo estetizzante, lo specchio dell’acqua come superficie di un tempo sospeso eppure ben preciso, un lavoro sui contrasti che ha dell’incredibile.
E però, dando ogni merito a Storaro (che, insomma, non di rado ha un talento ingombrante), si farebbe torto a Rossi, che qui rivela la sapienza e la sensibilità di un regista spesso associato ad altri colleghi più abili o fortunati e forse davvero giunto alla prova della vita. Anche qui ci sono legami netti: dalla Ferrara sotto il regime alle atmosfere borghesi passando per la malinconia della palude ci sono evocazioni di Michelangelo Antonioni, Valerio Zurlini, Florestano Vancini, perfino un presagio dell’imminente Vittorio De Sica bassaniano (Vittorio Bonicelli è co-sceneggiatore qui e ne Il giardino dei Finzi Contini)…
E poi Giovinezza, giovinezza è il nostro Jules e Jim: una provocazione, d’accordo, ma provate voi a non farvi attraversare dalla suggestione di questi tre personaggi nel fiore degli anni, travolti dalla storia, destinati all’amour fou… Ci risiamo, diamo a Rossi ciò che è di Rossi. «Certe volte mi chiedo se la nostra vita sarebbe stata più felice se non fossimo stati amici» si chiede Mariuccia Govoni, la cui voce narrante lega i pezzi del racconto con una volontà schiettamente letteraria.
I due maschi del triangolo sono il fratello Giordano e Giulio, figlio di un sarto che abita in un appartamento della famiglia Govoni, il cui babbo è un proprietario terriero del tutto organico al regime. Sono amici da sempre, malgrado qualche incomprensione che si dirada col senno di poi della prima persona (per esempio: Giulio non era permaloso, ma semplicemente «si sentiva povero») e colgono tutte le occasioni per essere sinceri e rendere onore al sentimento che li lega, spesso chiusi in una bella villa nella palude.
A poco a poco gli eventi della storia li portano su strade diverse: Giulio crede nelle magnifiche sorti del regime e poi s’impiega nello studio di un avvocato, mentre intreccia una relazione con Olimpia; Giordano milita clandestinamente in un movimento antifascista fino ad essere condannato; Mariuccia, pur consapevole di essere amata da Giulio, si sposa con un aviatore. Scoppia la guerra.
Cosciente dell’importanza dell’appuntamento, Rossi impressiona con straordinarie intuizioni estetiche: lo zoom sul trio di amici riflessi nello specchio mentre il padre parla della (dubbia) natura della sua adesione al fascismo; il fascista sponda nazista che illustra la grandezza della Germania al centro di un cerchio; i rimbrotti del gerarca a Giulio, nella forma di una voce fuori dal nostro campo visivo, che si lamenta dei vecchi, degli intellettuali in camicia nera, degli accademici che giurano il falso e celebra i vantaggi della giovinezza dell’interlocutore e quanto l’ordine salverà per sempre la Germania dal fallimento.
E poi il matrimonio di Mariuccia ridotto ad una serie di fotografie, un dolore annunciato proprio da questi eloquenti fermo-immagini; l’interno della casa della svaporata ma non scema Olimpia che pare un set da telefoni bianchi (scene e costumi di Giancarlo Bartolini Salimbeni); la persistenza della musica di Piero Piccioni capace di trasmettere un senso elegiaco e al contempo di suggerire il contesto storico; l’intelligenza del montaggio rapsodico del fidato collaboratore Giorgio Serrallonga.
Qualcuno potrà storcere il naso di fronte all’eccessiva letterarietà di certi dialoghi, ma è difficile non restare affascinati dal conflitto col padre («che diritto aveva di decidere cosa dovevo sapere o no?»), da certe parafrasi politiche alla luce del privato e viceversa («Non mi sono fidato di te. L’amicizia non conta. Sono tempi in cui si guardano più i nemici che gli amici»; «Ho il diritto come amico di crearti dubbi anche inutili; insomma volevo tenerti fuori dai guai»).
Altri, per esempio chi scrive, preferisce riscoprire un film di bellezza straziante, tra i più strepitosi sul fascismo in provincia, lucido e amaro come tutti i melodrammi versante coming of age ripensati con la maturità del senno di poi. Il saluto tra Giordano e Giulio nella notte nebbiosa con le onde del mare che si infrangono sulla barca. «Era destino incontrarsi tutti e tre. E io ti aspetterò qui». «Sono passati quasi trent’anni, i tre amici non si sono ritrovati più»: una finestra nel e sul nulla, il castello decrepito, le onde, i versi degli animali, il sole morente, l’uomo che fissa l’orizzonte pescando: per me quasi un capolavoro.
GIOVINEZZA, GIOVINEZZA (Italia, 1969) di Franco Rossi, con Alain Noury, Roberto Lande, Katia Moguy, Olimpia Carlisi, Guido Alberti, Alessandro Haber, Antonio Centa, Leonard Manzella, Colomba Ghiglia. Drammatico. ****
[…] colori di esplosività naturalistica, Odissea nuda è uno dei due capolavori di Rossi (l’altro è Giovinezza, giovinezza: qui un’avventura nello spazio, lì nel tempo), una dolente ricognizione sullo spaesamento di un […]
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[…] Curioso il percorso di Franco Rossi, regista fiorentino dalla gavetta molto coerente con la sua generazione (radio, set, teatro) giunto al cinema col dimenticato crime I falsari, interpretato dai decaduti divi di regime Fosco Giachetti e Doris Duranti – e poi autore di film assai diversi tra loro: la nascita di un divo e di un genere (Il seduttore), il dramma giovanile di periferia (Morte di un amico), il mondo movie intellettuale (Odissea nuda), l’affresco fascista (Giovinezza, giovinezza). […]
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