Festival del Cinema Spagnolo 2019 | Recensione: Las distancias

LAS DISTANCIAS (Spagna, 2018) di Elena Trapé, con Alexandra Jiménez, Miki Esparbé, Isak Férriz, Bruno Sevilla, María Ribera. Drammatico. ***

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Le distanze ci informano che siamo fragili, dice una bella canzone che pare essere una delle chiose migliori per commentare Las distancias, secondo lungometraggio di Elena Trapé che ha vinto il primo premio al Festival di Málaga del 2018. In prima battuta, la storia di un viaggio: una donna, due uomini e la compagna di uno di loro si recano da Barcellona a Berlino per fare una sorpresa ad un amico trasferitosi lì per lavoro. Una distanza geografica.

Ma, come ci indica il titolo, dobbiamo pensare al plurale in questo dramma dove la coralità è soprattutto un’ambizione, un desiderio, un’utopia. E allora le distanze sono tante scatole cinesi: l’una contiene un’altra tendendo verso un’infinita declinazione del concetto di distacco, lontananza, separazione, divisione. La geografia è un pretesto, il contenitore di un viaggio che è in realtà una fuga, un’evasione, un atto estremo.

Poi ci sono i colori della fotografia di Julián Elizalde: cromatismi che sottolineano l’opacità di una situazione sfuggente, i conflitti che montano lentamente per poi esplodere nel grande freddo. Riferimento non casuale, chiaramente. Amici dai tempi dell’università ed ora, a trentacinque anni, sono ai giri di boa: Eloi non ha un lavoro, vive coi suoi ed è piuttosto represso; Guille si porta dietro la fidanzata e sembra distaccato da tutto; Olivia è incinta ma non risponde al telefono al compagno; e Comas non si capisce bene cosa faccia a Berlino né quale sia la sua vita vera.

La distanza è, quindi, anche quella tra il passato certamente memorabile di questi ex ragazzi (Olivia sembra rivedersi in quattro ventenni per strada) e il presente di queste anime singole incapaci di sentirsi gruppo. Il tempo esiste, eccome se esiste. Le canzoni definiscono il trauma di un presente che può declinarsi solo come ricognizione di un passato impossibile da rivivere, i messaggi nascosti tra le note e nelle custodie come tracce di vite potenziali e mai vissute…

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E le distanze sono anche quelle tra i personaggi e le rispettive idee di mondo: bestie in cattività condotte in zone grigie per riformulare se stessi in contesti ostili. Eloi e il sintomo autodistruttivo dell’adolescente fuori tempo massimo, Guille e il tentativo di salvarsi dal baratro ostentando una forza che non gli appartiene, Olivia e il terribile gioco mentale di proporsi quale protagonista di un love affair con troppo passato e nessun futuro, Comas perennemente in fuga dalle responsabilità degli affetti.

Evitando con acume una deriva mucciniana del gruppo di trentenni, Elena Trapé lavora con le solitudini affollate di dolori repressi, sugli spazi ovattati ed opprimenti che accolgono le contraddizioni, le delusioni, i drammi di un gruppo omogeneo solo sul piano delle frustrazioni. Suddivisa in tre giorni dal venerdì alla domenica, una crudele trenodia al mito dell’amicizia, una commedia triste malinconicamente modulata sul registro del melodramma rarefatto. Film d’attori, diretti in modo impeccabile.

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