Recensione: Dolor y Gloria

DOLOR Y GLORIA (Spagna, 2019) di Pedro Almodóvar, con Antonio Banderas, Penélope Cruz, Asìer Etxeandía, Leonardo Sbaraglia, Nora Navas, Julieta Serano, Asier Flores, César Vicente, Cecilia Roth, Raúl Arévalo, Pedro Casablanc. Mélo. *****

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Sulle note di Alberto Iglesias, i colori si mischiano, sfuggono alle nostre classificazioni. Quadri che simulano la consumata tavolozza di un pittore oppure l’atto stesso di una creazione, come se le spirali cromatiche fossero definite dal soffio dentro una cannuccia errante. I titoli di testa appaiono nel mezzo, in un riquadro bianco (lo schermo che poi ricompare in teatro): nomi che sono punti fermi dentro una materia informe. Costellazioni dentro un universo determinato da un caos interiore che è sintomo delle troppe problematiche sanitarie.

Le grafiche, non a caso, ricompaiono poco dopo, quando Sebastian Mallo spiega come ha imparato la geografia e l’anatomia a partire dall’esperienza del proprio corpo. In Dolor y Gloria, il dolore è anzitutto fisico: quello del corpo di Sebastian, straziato dalle conseguenze di un intervento alla spalla, cronicamente affetto da guai alla colonna vertebrale nonché dall’acufene, dal soffio al cuore e da un altro numero imprecisato di malattie al quale va aggiunta un costante stato depressivo.

È una sequenza straordinaria perché Pedro Almodóvar sceglie così di abdicare alla messinscena per lasciar trionfare le animazioni di Juan Gatti, suo storico collaboratore con cui fa pace dopo un lungo litigio. Il fatto che il sodalizio sia rinsaldato sin dai titoli di testa lascia capire quanto il film sia un (altro) bilancio per il regista. Come Gli abbracci spezzati, ma abbracciando più esplicitamente quell’autofiction qui citata come qualcosa di invasivo e pericoloso perché mica tutti vogliono riconoscersi nelle storie, cosa dirà la gente?

Eppure è proprio grazie al riconoscimento che Dolor y Gloria spicca il volo nel melodramma più incandescente e struggente. E non lo fa da subito, quando preferisce giocare tra il ripensamento del passato e la fatica del presente, rincorrendo le fughe all’indietro del protagonista alla disperata ricerca di un baricentro. No, non accade né nell’incipit sott’acqua né seguendo le traiettorie di una breve e tarda tossicodipendenza, no.

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È uno dei passaggi più lucidi, teorici e al contempo incredibili del film: Sebastian ha regalato un suo testo all’attore del film che, trentadue anni prima, lo consacrò a livello nazionale. È un monologo autobiografico, tanto ardente quanto accorto nel calcolare la commozione. Il più scafato degli ascoltatori sa già come andrà a finire. Ma ecco una di quelle cose che solo il cinema può permettersi: il fantasma del monologo riappare, entra in sala, si rispecchia nelle parole, piange. E noi con lui.

Poco dopo, chiama l’autore occulto. Non si sentono da oltre tre decenni, le loro vite sono andate avanti, ma come si ama una volta non si ama più. Si danno appuntamento per l’indomani ma, alla finestra, Sebastian scopre che si trova sotto casa. Un’inquadratura clamorosa, da mélo classico: la figura dell’altro nella parte destra dello schermo, con le luci che illuminano la notte madrilena come se fosse davvero il set di un mélo. Cortocircuito totale. Chi se ne frega dell’autofiction, questo è cinema puro.

D’altronde, Sebastian è chiaramente Almodóvar: le camicie sgargianti, i capelli brizzolati elettrizzati, il rapporto con Madrid, i riferimenti alle passioni letterarie, artistiche, cinematografiche, musicali e soprattutto i parallelismi tra la vita del personaggio e la carriera del regista. Autore totale, la cui cifra riconoscibile sembrava essersi un po’ annacquata nella maniera (per quanto Julieta fosse bellissimo). Ma dove lo si vede un autore? Dal genio che riaffiora all’improvviso, dal graffio imprevisto, dallo squarcio che ti apre nel cuore quando meno te l’aspetti.

Ci importa fino ad un certo punto che Dolor y Gloria parli del cinema di Almodóvar, in una partitura cinefila che ha molto di autoreferenziale e poco di onanistico. Ci sono, anche solo per pochi istanti, i corpi preferiti del suo cinema, dall’apparizione di Cecilia Roth all’egemonia sofferta del miglior Antonio Banderas di sempre, e ci sono allusioni ai poster dei suoi film (Sabor è una specie di cover de La legge del desiderio), ad immagini iconiche (il monologo e le attrici amate in Tutto su mia madre, i preti de La mala educación, la stessa Penélope Cruz di Volver, la questione materna di Tacchi a spilloJulieta).

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Ci interessa di più sottolineare la gloria di un cineasta che, arrivato a quel tipo di film a cui approdano i più grandi in una certa stagione della vita, si abbandona ad un pellegrinaccio evocativo che procede per sensazioni, più nei pressi di un posto delle fragole che si nega fino in fondo l’ipotesi di virare verso Querelle e solo in apparenza affine all’autoanalisi felliniana, alla ricerca del tempo perduto e della Rosebud che è forse un disegno, perché se sai disegnare sai anche scrivere. E del primo deseo.

Un album di ricordi – come suggerisce la frammentata locandina – che chiede al cinema una possibilità di salvezza troppo spesso negata ai suoi eroi (vendicare Natalie Wood in Splendore nell’erba e Marilyn Monroe in Niagara, per intenderci: due film acquatici, come l’incipit…), di eternare la memoria attraverso la sua rielaborazione, di perdonare e farsi perdonare. Come sinfonia, come la musica che tutti sentiamo, un sogno concreto che vale una carriera. Se non il capolavoro, di certo un capolavoro.