Dal primo romanzo su due di Tennessee Williams, l’unico film di José Quintero. Due animali teatrali: ma se il primo ha lasciato tracce fondamentali anche nella storia del cinema, garantendo un repertorio di melodrammi incandescenti specialmente negli anni Cinquanta, il secondo ha frequentato il grande schermo solo in questa occasione, chissà perché mantenendo La primavera romana della signora Stone quale unicum nella sua carriera registica.
Negli anni in cui Roma non solo era meta delle major all’ultima spiaggia ma dominava anche l’immaginario americano in quanto meta esotica, apoteosi di un modo accidioso, rilassato, euforico di abitate il mondo, ecco questo film che – meno, per esempio, del migliore Due settimane in un’altra città – vive dentro l’idea di una dolce vita per turisti di lusso, nella patinata cornice della capitale decadente e modaiola.
Dopo averla conosciuta con le pezze al culo del Neorealismo, stracciona immagine di un popolo devastato dalla guerra e poi galvanizzato dal miracolo della gioia di vivere in un fermento travolgente, l’Italia è qui vista da un attico su Piazza di Spagna come un crocevia di corruzione, dissoluzione, mestizie. Produzione britannica, d’accordo, ma la mentalità culturale è del tutto americana, come la nazionalità della protagonista.
Acclamata attrice americana, rimasta improvvisamente vedova, la non più giovane Karen decide di restare a Roma e affitta un appartamento esclusivo. Ruolo che calza a pennello per il corpo – e la carriera – in declino per la magnifica Vivien Leigh, nemmeno cinquantenne ma già fantasma dei suoi giorni migliori, che procede contromano a bordo del tram chiamato desiderio sul viale del tramonto.
Tanto sfiorita lei quanto in fiore lui, Warren Beatty, fulgido e fiero nell’arroganza della sua splendente giovinezza, gigolò italiano (!) d’alto bordo procurato dalla contessa magnaccia Lotte Lenya (candidata all’Oscar come miglior non protagonista). Ovviamente la malinconica signora s’innamora dell’aitante opportunista, perturbante oggetto del desiderio anche per attrazione anagrafica ma senza il vampirismo che potrebbe salvarla dal baratro, e si lascia usare, cosciente del declino e della fine forse imminente («possibile che tu debba amarmi solo facendomi soffrire?»).
Non è un gran film, La primavera romana della signora Stone, ma è un discreto saggio a buon mercato delle ossessioni di Williams, qui esaltate dalle congiunture metacinematografiche di un testo che ha nel suo principio il cuore autoriflessivo: gli amori disgraziati perché non paritari, le pulsioni sessuali in zona menopausa, la gretta umanità dei maschi, il crepuscolo come unico orizzonte per definire i contorni di una disperazione alcolica e proiettata all’impossibilità di replicare il passato.
LA PRIMAVERA ROMANA DELLA SIGNORA STONE (THE ROMAN SPRING OF MRS. STONE, G.B., 1961) di José Quintero, con Viven Leigh, Warren Beatty, Jill St. John, Lotte Lenya, Coral Browne, Viola Keats. Mélo. ** ½