ROCKETMAN (G.B., 2019) di Dexter Fletcher, con Taron Egerton, Jamie Bell, Richard Madden, Bryce Dallas Howard, Gemma Jones, Stephen Graham, Jason Pennycooke. Biografico musical. ***
L’unico torto – se proprio vogliamo chiamarlo così – di Rocketman è l’essere arrivato dopo Bohemian Rhapsody. Sconta, così, il fatto di essere il secondo del mazzo, quando, in realtà, l’esplosivo biopic su Elton John non è solo migliore – per compattezza, scrittura, autenticità – di quello edulcorato e moralista su Freddie Mercury, ma è anche un’operazione intelligente per la capacità di aderire anima e corpo ad un genere. Che è il musical.
Per buona parte delle sue due ore, incorniciate in una seduta di rehab molto creativa, del musical segue le regole: la sospensione della realtà, la fluidità tra i piani, le coreografie dei numeri musicali, la stilizzazione dei personaggi nei costumi e nei movimenti. Musical glam rock, certamente, in gloria del suo protagonista (anche produttore esecutivo) e riscatta un genere che – al di là del felice ripensamento di sé di La La Land – da un po’ di tempo preferisce appiattirsi sulla ripetizione del già visto a teatro o in altri film (i live action Disney).
L’intelligenza del film sta nell’interpretare la star come un vero e proprio antieroe da musical contemporaneo, scegliendo di trasformare la sua vita in opera d’arte, trovando connessioni tra le canzoni da lui stesso composte e gli episodi vissuti, agendo in questo senso adottando un approccio perfino critico. Come se l’opera di Elton John non possa prescindere dalla vita di Elton John, artista che ha ucciso la sua reale identità di Reginald Dwight, bambino non voluto da un padre feroce, cresciuto da una madre anafettiva e accudito da una nonna premurosa.
Rocketman ha almeno tre momenti di grande cinema, quelli che dimostrano l’assunto secondo cui se uno desidera la pedante riproposizione di un’esistenza può agevolmente cercare un documentario didattico. Il primo riguarda la nascita di Your Song, scritta dallo storico amico e paroliere Bernie Taupin (che grandi momenti tra i due, dalla stretta di mano dopo la sfuriata di Elton alla cena della resa dei conti): al pianoforte, baciato da quella grazia che tocca chi si trova nell’atto della creazione, Elton inventa una melodia perfetta, e la canzone è tutta lì, con Bernie accanto, la nonna commossa e la madre, sempre contraddittoria, nella profondità di campo.
Il secondo accade durante il primo concerto americano, quando, nell’estasi della comunione con un pubblico osannante, il sacerdote della messinscena suona il piano librando nel vuoto, e così lo imitano gli spettatori che in quell’istante diventano i membri di una comunità ipnotizzata dal divo arrivato da chissà dove. Una scena così spudorata (e così il fumo dell’uomo razzo in un concerto sotto droga) non si vede facilmente in un biopic mainstream.
Il terzo è il picco tragico del film, il malore quasi letale, che dall’allegoria onirica sul fondo della piscina si sposta prima nell’ambulanza e poi in ospedale. Elton canta Rocketman, la canzone che si porta dietro da quando era piccolo e immaginava, nella sua cameretta, di dirigere un’orchestra, le cui note capitolano ogni tanto come a determinare la magnifica ossessione di un pezzo che vale una vita, una metafora ma anche un colpo di fulmine o al cuore, la madre di tutto il resto.
Rocketman riesce a fondere benissimo il grande cinema popolare con la tradizione non fossilizzata del genere classico meno frequentato oggi, la “storia vera” tanto cara a certo pubblico bramoso di farsi i fatti altrui (le droghe, le orge, l’amore fallito, gli scontri con la madre e il padre) e il ripensamento mitico di una figura che grazie a questo film sceglie di consegnarsi quale altro da sé, incarnato da uno strepitoso Taron Egerton consapevole della grande occasione.