Celebrato all’epoca nientepopodimeno che con un Oscar speciale per il miglior film non americano (la categoria ufficiale sarebbe stata introdotta solo sei anni dopo), Le mura di Malapaga è oggi abbastanza dimenticato. Così come del tutto rimossa è la protagonista del film, addirittura premiata al Festival di Cannes quale miglior attrice assieme al regista René Clément, peso massimo del cinema d’oltralpe.
Parliamo di Isa Miranda, esplosa tre lustri prima con La signora di tutti, il film italiano di Max Ophüls – che dopo il ritrovato quanto effimero successo garantito da Le mura la volle nel suo Il piacere e l’amore – che le aprì le porte di Hollywood, dove tuttavia non raggiunse gli standard delle altre emigrate europee (nelle intenzioni degli studios doveva essere la risposta italiana a Marlene). Tornata in Italia, riuscì a superare l’ostracismo fascista grazie agli exploit recitativi di Malombra e Zazà e soprattutto a operazioni cucitele addosso dal marito produttore occasionalmente regista Alfredo Guarini.
Le mura di Malapaga è un film di frontiera per tanti motivi. Anzitutto c’è proprio Guarini a sovrintendere questa coproduzione franco-italiana, ma sarebbe ingeneroso nei confronti di Clément ridurlo a professionista chiamato a mettere in scena il film per la (ex) diva. Insomma, non sono È caduta una donna o Documento Z S 3. Piuttosto il tentativo di unire le forze per proporre l’alleanza tra due scuole cinematografiche mettendo insieme un’attrice italiana riconosciuta a livello internazionale e un attore che incarna l’idea stessa della Francia.
Grazie alla sua presenza iconica e carismatica, Jean Gabin porta in dote al film l’atmosfera umida e malinconica del realismo poetico, con quella sua capacità unica di rappresentare l’universo portuale abitato da uomini sconfitti, segnati dalla vita, con dietro alle spalle storie troppo ingombranti per poter immaginare un futuro. Con la sua immagine più anziana di quanto testimoniato dall’anagrafe, Gabin è il perfetto antieroe di questo melodramma che conferma quanto questo sia il genere più affine al noir.
Ma la vera trovata del film è il suo paesaggio, che spinge abilmente la temperie neorealista verso espliciti orizzonti spettacolari. Peraltro in una città mai del tutto esaltata dal cinema italiano, che qui sembra una variazione della decadenza napoletana, l’ipotesi di un incrocio mediterraneo tra l’Africa bianca e il Portogallo. Il titolo, infatti, si riferisce alla cinta muraria che accerchia una Genova massacrata dalla guerra: discese ardite e risalite per le strade del quartiere vicino al porto, tra edifici sul punto di crollare e invece ancora in piedi, le macerie ovunque come fondamentali elementi del contesto, il senso di una fine scampata per miracolo.
Certo, il fatiscente palazzone (un vecchio convento) dove alloggiano la Miranda e la figlia è stato ricreato a Cinecittà, ma c’è una ricerca realistica che lo rende più vero del vero. Chissà quanto volontariamente, Clément cattura con spirito documentaristico un pezzo d’Italia che racconta con precisione un pezzo di storia. E va dato atto al regista francese di esserci riuscito, anche grazie all’intelligenza dello scenografo Piero Filippone.
La storia – scritta dal prevértiano Jean Aurenche e Pierre Bost, coppia d’oro pre Nouvelle vague, con i rimaneggiamenti di Suso Cecchi D’Amico e Cesare Zavattini a dare il sapore italiano, il gusto del bozzetto, le tracce del verismo: forse l’allevamento del pollo, la famiglia di Ave Ninchi, il dentista sospettoso – racconta il breve incontro tra un marinaio di Marsiglia che ha ucciso l’amante e una cameriera che ha lasciato il marito violento per tutelare la figlioletta. Il bilinguismo dell’edizione originale ne acuisce il disperato romanticismo, con un finale.
LE MURA DI MALAPAGA (AU-DELÀ DES GRILLES, Francia-Italia, 1949), di René Cléments, con Jean Gabin, Isa Miranda, Vera Talchi, Andrea Checchi, Robert Dalban, Ave Ninchi, Checco Rissone. Mélo. *** ½