Negli anni novanta la Disney sposò, detto sommariamente, una linea editoriale che contaminava il ritorno alla dimensione magica del romanticismo, l’apertura a nuovi mondi e la scelta di un modello avventuresco. Una precisa e fortunata politica aziendale che ha prodotto alcuni film subito entrati nel novero dei classici accanto ai capolavori della golden age, come non era capitato con i meno irreggimentati film del decennio precedente.
Prendendo come spunto una vecchia leggenda locale, Mulan rispecchia fedelmente questa operazione industriale e ne è al contempo uno degli ultimi fuochi. Al centro della scena, c’è una protagonista femminile post-adolescenziale, una ragazza cinese destinata ad un percorso domestico che sceglie di sostituire l’anziano padre quando questi viene chiamato per difendere la patria dagli Unni invasori. Sotto mentite spoglie, all’insaputa di tutti, si emancipa e cresce senza riuscire a rinunciare alle ragioni del cuore.
Caratterizzato da un disegno spigoloso e da un’animazione che rielabora una tradizione iconografica millenaria, è un film interessante più che inappuntabile, più adulto di quanto voglia far credere l’architettura del romanzo di formazione musicale (suggellata dal numero Farò di te un uomo), probabilmente non del tutto risolto nella soluzione naturalmente lieta quanto non indispensabile (certamente Pocahontas docet: il lieto fine a tutti i costi).
Nel parco dei caratteristi non funziona del tutto il logorroico draghetto Mushu – certo non contribuisce l’esaltato Enrico Papi che lo doppia al posto di Eddie Murphy – e fanno macchia gli spiriti degli avi e la nonna svanita (doppiata da Lina Wertmuller!). Nella versione originale, i protagonisti hanno le voci dei cino-americani Ming-Na Wen e BD Wong, mentre quella dell’imperatore è di Pat Morita, che però aveva origini giapponesi… Ah, la semplificazione.
MULAN (U.S.A., 1998) di Tony Bancroft, Barry Cook. Animazione storico fantastico avventura musicale. ** ½