Alla riscoperta di Lina Wertmüller | Il mio corpo per un poker (1968)

Molto più giusto il titolo internazionale: The Belle Starr Story, che sottolinea quella dimensione romanzesca e memorialistica che, ad un certo punto, decide di prendere questo anomalo western all’italiana, l’unico diretto da una donna. Chiamata a sostituire Piero Cristofani, Lina Wertmüller preferì, come i suoi colleghi maschi, nascondersi dietro due pseudonimi: Nathan Wich alla regia, George Brown (lo stesso usato per Rita la zanzara) per la sceneggiatura.

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Il mio corpo per un poker inizia con una delle partite a poker più erotiche della storia, complici gli oggetti del desiderio incarnati dai protagonisti. Se George Eastman alias Luigi Montefiori è all’apice del suo imponente fascino virile, la splendida Elsa Martinelli, alla fine della stagione di gloria americana, trova qui uno dei suoi ruoli più iconici, anche perché si tratta di una delle poche donne attorno a cui è costruito un western: detto niente.

Dopo i titoli di testa di gusto pop tra i più belli del cinema italiano, sulle note della title-track interpretata dalla stessa Martinelli, Lina presenta il suo personaggio attraverso una serie di tratti essenziali: fuma il sigaro alla Marlene, per legittimarsi agli occhi dei maschi che s’innamorano del suo corpo; come Rita Pavone in Gian Burrasca, è una «ragazza vestita da uomo», sebbene qui lo slittamento di genere sia dentro la narrazione; dalla Pavone plasmata dalla regista mutua i capelli fulvi e le lentiggini, quasi a voler creare un falso delux, una variazione sexy del personaggio; «sei uno strano tipo», le dice Eastman, tra una partita e una scopata, eccitato anche dal fatto di stare a letto con «una donna che per fare l’amore deve togliersi i pantaloni».

Bene, fin qui il film potrebbe tranquillamente inserirsi nel solco del filone, retto dall’idea forte del gender e da lì sviluppatosi seguendo le regole di questo tipo di storie: furti di cavalli e sparatorie nei saloon, sesso e pistole, rapine e fughe. Eppure c’è qualcosa di meno scontato: Lina prende la macchina del western all’italiana per innescare al suo interno una narrazione intimistica che parte proprio dal genere sessuale della sue eroina.

Rivelata per flashback, con frammenti di dolore che squarciano il flusso degli eventi, Il mio corpo per un poker è il racconto biografico (storia vera in origine) di un’emancipazione, volendo anche di una vendetta. Abituata alla violenza del padre, Belle scappa da un matrimonio con un uomo che non ama, si reinventa spietata avventuriera per riscattarsi da una vita triste, finendo quasi per dispiacersi nel momento in cui non riesce ad ammazzare il padre.

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Non so se fosse indispensabile avere una regista donna per assistere a un film tanto preciso nel definire i conflitti interiori di un personaggio così complesso. So o comunque credo, tuttavia, che vada dato atto alla Wertmüller di aver ragionato – lei come altri – su queste tematiche all’interno di un genere all’epoca molto commerciale, sposandone la forma intrisa di violenza e forza picaresca e adottandovi un approccio autonomo. Forse non il miglior spaghetti western, ma nell’orecchino strappato dal lobo di Eastman c’è tutto un mondo.

IL MIO CORPO PER UN POKER (Italia, 1968) di Nathan Wich (Lina Wertmüller), con Elsa Martinelli, Robert Woods, George Eastman, Francesca Righini, Dan Harrison, Vladimir Medar, Eugene Walter, Orso Maria Guerrini. Western. ** ½

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