I Settanta sono anni fertilissimi per il cinema di Pupi Avati, esordiente all’inizio del decennio con due film assolutamente scriteriati come Balsamus, l’uomo di Satana e il lungamente invisibile Thomas… gli indemoniati. Incredibile pensare quanto il grottesco sia stata la sua cifra per molto tempo, almeno fino alla svolta apparentemente rassicurante e in realtà nel profondo ancora crudele dei racconti campestri, le gite scolastiche, le storie di ragazzi e ragazze, le feste di laurea.
Ai due succitati seguirono due commedie che scherzano coi santi, La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone e Bordella, l’una feroce goliardata folkloristica e l’altra inaudita satira politico-sessuale. E poi la svolta: La casa dalle finestre che ridono, cult che apre la stagione del gotico padano, geniale invenzione avatiana che sviluppa thriller macabri e quasi sovrannaturali in un inquietante contesto rurale mai usato per vicende del genere.
Di quel film dal portato ormai iconico e già allora notato per l’originalità, Tutti defunti… tranne i morti è un’autoparodia, un’instant parafrasi intrisa della goliardia dei lavori precedenti oppure una variazione del e sul tema per svelare il lato buffo dell’orrore, il senso comico nascosto dietro gli angoli dei palazzi infestati dalle oscure presenze: prendersi gioco, insomma, della morte come se fosse un esorcismo popolare.
Il titolo, d’altronde, svela subito la natura umoristica di questo divertissment giallo-nero che forse deve qualcosa al coevo Invito a cena con delitto, ma che in una certa misura continua il discorso sarcastico di Bordella al crocevia delle suggestioni paesaggistiche della Casa. Il ritorno di Gianni Cavina e Francesca Marciano, coprotagonisti del giallo, è un segnale preciso: lo stesso universo può essere interpretato in almeno due modi diversi e il ribaltamento permette di setacciarlo con intelligenza.
Sin dall’incipit, inoltre, è piuttosto significativa la presenza di Carlo Delle Piane, alla prima esperienza con Avati: storico caratterista comico, con lo stile compassato reso più esilarante dalla sua faccia stravagante, porta in dote quel sommo guizzo farsesco che dà la misura di tutto il film. E così il feticcio Bob Tonelli, corpo fondamentale del primo cinema avatiano, il nano del tutto integrato la cui fisicità è ora di rigolettiana memoria ora immagine felliniana ora infante sessualizzato.
La storia intreccia le ricerche araldiche di un piazzista con la carneficina di una famiglia nobiliare spiantate e decaduta, determinata da una profezia secondo cui alla morte di nove membri sarà possibile individuare un tesoro nascosto. Un gioco scatenato che tuttavia non è sempre sostenuto da un ritmo all’altezza, come capita in quasi tutto lo scatenatissimo e anarchico cinema avatiano di quegli anni, in attesa della quadratura del cerchio trovata nei malinconici racconti umani dei mediocri.
Negli anni più tristi, Avati – su sceneggiatura scritta con il fratello Antonio, Cavina e Maurizio Costanzo, assidui sodali dell’epoca – fugge in territori schizoidi per dimenticare la barbarie metropolitana, parafrasando una contemporaneità che gli fa orrore attraverso una lettura acida e burlesca dei rapporti di classe e dei thriller indiziari. Per beffare la morte, rinverdire il nonsense, giocare con il cinema: che presagio la roulette russa che avrebbe dominato il successivo Il cacciatore! Fotografia: Pasquale Rachini. Musiche: Amedeo Tommasi. Una curiosa (coraggiosa?) candidatura ai Nastri d’Argento per il miglior regista.
TUTTI DEFUNTI… TRANNE I MORTI (Italia, 1977) di Pupi Avati, con Gianni Cavina, Francesca Marciano, Carlo Delle Piane, Greta Vajan, Michele Mirabella, Flavia Giorgi, Giulio Pizzirani, Bob Tonelli. Grottesco. ** ½