LA VITA IN UN ATTIMO (LIFE ITSELF, U.S.A., 2018) di Dan Fogelman, con Oscar Isaac, Oliva Wilde, Mandy Patinkin, Annette Bening, Antonio Banderas, Olivia Cooke, Sergio Peris-Mencheta, Laia Costa, Alex Monner, Jean Smart, Isabel Durant, Lorenza Izzo, Samuel L. Jackson. Mélo. **
Probabilmente è solo un’impressione effimera, ma se fosse Collateral Beauty il paradigma del melodramma degli anni Dieci? Non perché sia particolarmente riuscito, anzi. D’altronde non è materia facile da trattare, l’equilibrio tra lacrime e carne, immaginazione e realtà, tragedia e sogno, specie in un melodrammone di lusso che ambisce alle atmosfere rarefatte di René Clair e Frank Capra ma si risolve in una supersoap accidentalmente finita sul grande schermo.
Ma, uscendo dagli schematismi dei dispositivi, non possiamo ignorare che questo è il decennio della serialità televisiva. E che il cinema dei sentimenti annaspa, alla disperata ricerca della fiducia da parte di un pubblico abituato a seguire molte stagioni appresso a personaggi scritti ora divinamente ora con l’accetta. Non a caso il mélo degli anni Dieci è soprattutto appannaggio dei teen, con temi talmente grandi da essere inevitabilmente commoventi: i primi amori, le prime volte, le malattie incurabili, le morti degli adolescenti.
La vita in un attimo è un’operazione confusionaria. Se da una parte l’idea di portare il cinema il creatore e dunque il mondo di una delle serie mélo più importanti degli ultimi anni, il Dan Fogelman di This Is Us, è una mossa intelligente per intercettare quel pubblico disponibile ad affezionarsi a storie che toccano il cuore, dall’altra è un mezzo suicidio limitare quel tipo di narrazione e universo nell’arco di due ore in cui, appunto, accade di tutto e senza troppo senno.
L’intuizione del mosaico, non nuova, ha pur sempre una sua efficacia: due macrostorie separate destinate a incrociarsi in una terza storia a dispetto della credibilità (perché? perché è giusto così). La prima è quella di un quarantenne depresso che ricostruisce la sua triste vicenda matrimoniale nello studio della psicanalista; la seconda riguarda una coppia di lavoratori andalusi e il loro carismatico padrone, diventata figura di riferimento per il loro figlioletto; nella terza, quest’ultimo, ormai studente a New York, incontra una ragazza…
Più che avvicinarsi alla suggestione di un romanzo popolare per immagini, la suddivisione in capitoli sembra condensare le ipotetiche puntate di una serie dal respiro più largo, come se il film fosse un fotoromanzo sfogliato per noia, oppure, meglio, un montaggio frettoloso. In realtà, ironicamente, questo aspetto non collima con l’adesione a un ritmo meno faticoso di quanto Fogelman riesce a trasmettere, trovando solo nelle canzoni di Bob Dylan un leitmotiv fin troppo teorico e telefonato.
E se l’inizio con l’esplicito benché un po’ lezioso ricorso al discorso sul narrare sembra tuttavia incanalare il film in un territorio a metà tra il divertissment e la serietà (belli i momenti tra il nonno Mandy Patinkin e la nipote cresciuta nel dolore), complice il confronto tra il protagonista e la psicanalista (si può sprecare Annette Bening così a mezzo servizio?), il passaggio alle cartoline andaluse è brusco e noioso, anche per via di un Antonio Banderas sbrigliato senza criterio in un monologo sostanzialmente superfluo.
A suo modo interessante per quel che avrebbe potuto esprimere nel dosare le modalità del narrare, La vita in un attimo sembra soprattutto l’occasione sprecata sia di riportare al cinema un tipo di narrazione ormai rinchiusa solo nelle maglie larghe della serialità sia di creare un supremo guilty pleasure dove tutto è meravigliosamente esagerato. Resta la buona resa di attori che gigioneggiano alla grande, su tutti Oscar Isaac consapevole del generale flirting with disaster e che quindi se la sbriga tra sguardi languidi e malinconici sorrisi.