Recensione: Domino

DOMINO (Danimarca-Francia-Italia-Belgio-Paesi Bassi, 2019) di Brian De Palma, con Nikolaj Coster-Waldau, Carice von Houten, Guy Pearce, Eriq Ebouaney, Søren Malling. Thriller. *

Curioso il destino dei reduci della New Hollywood. Se Steven Spielberg e Martin Scorsese continuano a rigenerarsi puntando sempre in alto, Woody Allen procede nonostante l’ostracismo americano, Francis Ford Coppola si barcamena tra sogni e fallimenti e George Lucas ha venduto tutto al miglior offerente, mentre dopo i (finora) incredibili last shot William Friedkin gioca con la sua mitologia e Peter Bogdanovich ci racconta la storia del cinema. E poi c’è Brian De Palma.

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Non è questa la sede per una trattazione del cinema postmoderno, citazionista, virtuosistico, voyeuristico di De Palma, tra gli autori più studiati della sua generazione. Sarebbe utile ma anche ingeneroso, perché Domino ha tutto ciò che serve per farcelo rimpiangere. Sappiamo come sono andate le cose: una coproduzione europea a maggioranza danese, di fatto un lavoro disconosciuto e rinnegato, ampiamente rimaneggiato da produttori cialtroni al punto da renderlo un fondo di magazzino buono per il cestone dell’autogrill.

D’accordo, ma anche De Palma ha le sue responsabilità. Da Mission: Impossible in poi, ovvero l’ultimo vero successo, è uno spirito libero capace di passare da una dotta riflessione sul corpo e sul cinema (Femme Fatale) a un semidocumentario di guerra (Redacted), con un’anarchia molto Nouvelle vauge che mette in luce il suo aspetto più imponderabile: De Palma può essere davvero uno scheggia impazzita.

Domino è un thriller convenzionale, pieno di stereotipi e luoghi comuni, assurdamente ambientato in Danimarca nel 2020 per evocare la mezza distopia di un’Europa dentro la morsa del terrorismo islamico, che si districa tra spie doppiogiochiste e poliziotti probi. Il fantasma delle antiche intuizioni hitchcockiane si annida nelle vertigini solo annunciate agli occhi di chi s’aspetta qualcosa di meno scontato: perfino le cadute dai palazzi sono posticce, destinate a impressionare non per l’ansia insita al movimento perturbante ma per la sciatteria con cui De Palma porta a casa la giornata.

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Eppure c’è qualche brivido che presagisce l’ipotesi di un film decoroso: il carrello in avanti verso la pistola – oggetto fondamentale per lo sviluppo della vicenda – poggiata sul comodino, mentre il protagonista scopa e la musica di Pino Donaggio incede per sottolineare il pericolo imminente; il dettaglio truculento del dito mozzato alternato a ciò che accade al piano di sotto; la sequenza dello stadio al ralenti nella visione attraverso il binocolo mentre c’è lo scontro sul terrazzo.

Ma sono elementi che accentuano ulteriormente la tristezza per la parabola discendente di un regista capace di altre esperienze, qui costretto a seguire attori da noir bis degli anni Cinquanta scelti per il successo televisivo. Non ci sarebbe niente di male a rinverdire quel tipo di cinema artigianale e onesto: però non è questo il caso, non è questo il tempo. Parafrasi (facile) della parabola politica: «siamo americani, leggiamo le vostre mail».

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