Gli anni Sessanta stanno per finire. Il decennio dei grandi cambiamenti politici, sociali e culturali ha interessato anche il continente africano. Dal 1960, infatti, alcuni stati hanno scelto un sistema democratico ispirato ai modelli occidentali, trovando nel presidente senegalese Léopold Sédar Sanghor, ideologo della Negritudine, un leader in grado di guidare la necessaria sintesi tra gli archetipi tribali e la modernità europea.
Nell’ambito della sua esplorazione del mito, alla ricerca di una purezza lontana dalla dittatura del consumismo e dalle logiche del potere borghese, Pier Paolo Pasolini, tra il 1968 e il ’69, individua proprio nella periferia dell’Africa contemporanea – post-colonialista, socialista, filocinese, benché sedotta dal neocapitalismo americano – il luogo ideale dove collocare la sua versione dell’Orestiade. Testo che aveva già tradotto per il teatro nel 1959, contestualizzandone anzitutto il linguaggio al tempo presente, e qui ulteriormente ripensato seguendo l’idea del rovesciamento contro l’egemonia del classico, dai più considerato nei termini neoclassici di un sistema pacificato, algido, riconciliato.
Se la Grecia antica era dominata da uno spirito barbaro, allora si tratta di interpretare una storia barbarica che non può fare a meno di un paesaggio in cui si configura ancora il conflitto tra un’ancestrale ferocia e la nuova democrazia. E dunque lo scontro tra le Erinni, dee del terrore atavico, rintracciate in una leonessa ferita, ed Atena, dea della ragione che protegge la nuova città e infine trasfigura le Erinni in Eumenidi. Le antiche divinità primordiali resistono nel mondo nuovo, ansioso di vivere appieno il futuro, e che sperimenta per la prima volta la democrazia, proprio come Atene che accolse il primo tribunale dell’umanità.
Accettando lo status quo della rinascita africana, Pasolini capisce quanto fondamentale sia l’attualità per rivelare le antiche immagini della classicità, mettendo al centro una comunità di persone dalla «vita interiore molto profonda», capace di «momenti mistici e sacrali» oggi come allora.
A sottolineare il work in progress non solo del film ma della sua idea stessa, i primi minuti di Appunti per un’Orestiade africana sono destinati ad una sorta di casting itinerante, tra la Tanzania, il Tanganica e l’Uganda infiammati dalla violenza del sole: Agamennone, tornato dalla guerra, potrebbe essere un vecchio uomo stanco o un «favoloso e antico masai»; Pilade, l’amico fedele, così caro a Pasolini tanto da dedicargli un seguito della trilogia, ha invece pressoché subito un volto, come se fosse già nitido nell’immaginazione dell’autore; e se agli occhi del regista Clitennestra appare quasi inevitabilmente una donna velata, la fiera Elettra sembra più difficile da scoprire nei volti troppo sorridenti delle giovani africane.
E così i luoghi: le fabbriche, le scuole, l’università e i campi, i villaggi, le terre vergini, il progresso e l’arcaismo, l’omologazione e il preistorico. Il coro lo cerca alle sponde del lago Vittoria, mentre ad una platea di studenti africani de La Sapienza sottopone alcune questioni su quanto di Oreste persista in loro, nonché per confrontarsi sul senso stesso di localizzare la tragedia nell’Africa contemporanea. Ma soprattutto Pasolini si convince che le parole di Oreste possono essere cantate: ed allora immagina, per la scena con Cassandra e il coro, una jazz session che coinvolga anche gli artisti afroamericani, capofila naturali di qualunque rivolta black.
Nella forma del reportage etnografico, un taccuino poetico profondamente politico, un diario di viaggio pieno di suggestioni, riflessioni, intuizioni, che nella sua natura sperimentale identifica il metodo con cui affrontare il testo. Appunti che resteranno tali, come se il concetto di non-finito o di lavoro per sempre in fieri sia davvero l’unico modo per mettere in scena un’opera per sempre aperta. Un film-saggio o un laboratorio su fallimento ragionato, l’utopia di un film su un’utopia.
APPUNTI PER UN’ORESTIADE AFRICANA (Italia, 1970) di Pier Paolo Pasolini. Documentario. ***