IL SIGNOR DIAVOLO (Italia, 2019) di Pupi Avati, con Filippo Franchini, Gabriel Lo Giudice, Lorenzo Salvatori, Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Chiara Caselli, Cesare Cremonini, Massimo Bonetti, Andrea Roncato, Alessandro Haber, Alberto Rossi, Fabio Ferrari, Chiara Sani, Iskra Menarini, Ludovica Pedetta, Ariel Serra, Enrico Salimbeni. Horror. *** ½
Si dà del lei, al Diavolo, perché chi fa paura deve essere trattato col dovuto rispetto, così come il maiale, “la bestia più schifosa della terra” dunque quella che più si avvicina all’orrore del demonio. Siamo all’inizio degli anni Cinquanta, la vita sta ricominciando con la chiesa (l’istituzione e il luogo) al centro del mondo: si celebrano le prime comunioni del dopoguerra, si spiano le belle donne del paese per intercettare un piacere proibito, i ricchi sono ricchissimi e giovano di tutti gli appoggi possibili.
Per salvare i fondamentali voti democristiani del “cattolicissimo Veneto”, il ministero di Grazia e Giustizia decide di intervenire direttamente in una vicenda che sta turbando gli equilibri politici e sociali di un borgo nella palude del nord-est: un bambino, turbato dalla morte dell’unico amico, ha ucciso un suo coetaneo, deforme e disadattato figlio della donna più potente della zona nonché grande elettrice della Dc, perché convinto che fosse posseduto dal diavolo. Per mettere a tacere il coacervo di credenze e dicerie, viene inviato un funzionario ministeriale alla prima missione.
Sembrava ormai eclissato, il guizzo di Pupi Avati, relegato alla televisione con tv movie dal forte impianto religioso. A distanza di cinque anni dall’ultima fatica cinematografica, torna sul grande schermo riallacciandosi sia alla recente esperienza in tv sia a quell’ultimo film, il fallimentare Un ragazzo d’oro, che se avesse meglio esplorato le zone nere del rapporto padre-figlio sarebbe stato davvero un gran film. Sì, chiaro, è indiscutibile il ritorno alle atmosfere del gotico padano, filone di appena tre o quattro film che gli assicura da sempre il beneficio di quella critica mai persuasa dalle (troppe) elegie del tempo perduto che hanno condotto Avati ai limiti della maniera. Ma non è semplicemente un revival di quel tipo di horror.
In Il signor Diavolo c’è un dialogo con il cattolicesimo che da una parte rafforza l’idea che il miglior Avati sia naturalmente quello eretico, dialettico, affascinato da ciò che la Chiesa ufficiale intende occultare per preservare il suo potere temporale, spirituale, politico, e dall’altra sottolinea l’unicità e l’eccentricità di un autore dalla moralità cattolica difficilmente incasellabile nel panorama italiano. E che dà il meglio di sé quando scandaglia l’oscuro, piccona il sistema, alza le botole dove sono nascosti i segreti più inconfessabili.
Sostenere che Il signor Diavolo sia raffazzonato, fiacco, pieno di effettacci, ralenti e suoni da consunto repertorio – come hanno fatto alcuni commentatori meno ben disposti di una comunque folta pletora di lodatori – sembra un modo facile per condannare i limiti e le mancanze di un film considerato fuori tempo massimo. Ma è proprio la sua antichità, il ritorno alla tradizione e a un certo modo di fare cinema artigianale che lo rendono un ufo, un oggetto infiammabile, un rigurgito del passato che serve ad Avati, tra angolazioni dal basso e violenti tagli di luce, a farsi riconoscere da chi l’ha un po’ trascurato e a farsi conoscere da chi pigramente credeva di non doversi aspettare più niente da lui.
Un film che pare di quarant’anni fa? Certo. Non alla portata di tutti? Assolutamente sì. E perciò straordinario perché fuori dal comune, un’inquietante, sgradevole, sporca favola nera meravigliosamente fotografata dall’avatiano Cesare Bastelli (quelle acque, quelle ombre!) senza nessuna concessione all’idillio campestre, zeppa delle facce più giuste che appartengono alla storia di Avati, compresi comprimari indispensabili come Cesare Cremonini e Chiara Sani (i genitori del protagonista).
Un rito satanico, una veglia funebre, una cerimonia dove le presenze ectoplasmatiche appartengono a corpi provati dal tempo: i cammei di Alessandro Haber e Andrea Roncato, le rughe e il profilo di Massimo Bonetti, ma soprattutto i clamorosi Lino Capolicchio e Gianni Cavina, veri signori delle tenebre, l’uno che prega ad occhi chiusi e bassa voce per non farsi sentire e l’altro mellifluo e ambiguo che cammina male e non dorme da dieci anni. E poi, neofita per l’autore, Chiara Caselli novella Laura Betti, che in tre apparizioni è assolutamente memorabile in un ruolo a metà tra cronaca e leggenda.
Anche il finto protagonista, il detective per caso Gabriel Lo Giudice, funziona perché lunare e terreno, in linea con i buffi e angosciosi antieroi avatiani, qui con una sottotrama romantico-depressa che è puro Avati touch. E i bambini, soprattutto Lorenzo Salvatori che in realtà bambino non è più, colgono bene il cuore nero dell’autore. Alcune sequenze da antologia: le suore e il fuoco, l’ostia per terra, il dentista, il castigo in montaggio parallelo col finale. E chi se l’aspettava, un film così.
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