Venezia 76 | Recensione: Ad Astra

AD ASTRA (U.S.A.-Brasile-Cina, 2019) di James Gray, con Brad Pitt, Tommy Lee Jones, Ruth Negga, Liv Tyler, Donald Sutherland, Jamie Kennedy. Fantascienza drammatico. ***

La nostra è l’epoca della sci-fi che ha subordinato l’avventura nell’ignoto spazio profondo alla riflessione filosofica dentro gli spazi più ignoti del nostro profondo. Nel ricordo di 2001: Odissea nello Spazio e Solaris, Gravity e Interstellar hanno ribaltato la prospettiva di un genere che ha progressivamente abbandonato la sua dimensione più movimentata – lasciandola appaltata al rinnovato universo di Star Wars – per votarsi ad una prospettiva più metaforica e meditativa.

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Ad Astra s’inserisce nel solco di questa tendenza, dimostrandone altresì le problematiche. Se il cuore della narrazione americana dello scorso decennio era incentrata sul “tornare a casa” in parallelo con la tragedia bellica, quello di questa decade ormai prossima alla conclusione sembra essere la fuga verso la massima espressione dell’altrove come figura retorica di un ripiegamento nel privato che, peraltro, pare a sua volta dominare molto cinema americano recente.

L’avventura di Brad Pitt nello spazio è squisitamente melodrammatica. Interpreta un astronauta che si porta evidentemente dietro un tormento: amore? Forse. Anche. Soprattutto familiare: suo padre, astronauta prima di lui, è scomparso da trent’anni. Per ritrovarlo, si spinge fino ai bordi esterni del sistema solare, con il pretesto di scoprire quale catastrofe sta minacciando il genere umano. Le due ricerche sono collegate fra loro? Siamo nel regno dell’allegoria, non dimentichiamolo.

Nei film di James Gray (tra i massimi registi americani per talento e titanismo) c’è sempre qualcuno che tende oltre i limiti della conoscenza. Pensiamo al suo ultimo capolavoro: qui la “lost city of Z” (titolo originale di Civiltà perduta) trova le sue coordinate (s)misurandosi secondo la più grande delle scale. Gray continua a raccontare le strazianti epopee di uomini chiamati a misurarsi con i propri desideri, inconsciamente consapevoli di dover ripensare il posto nel mondo eppure destinati a scontrarsi con la frustrazione.

Pitt è esattamente questo: un uomo – anzi: un figlio – costretto ad accettare l’idea di essere stato abbandonato. Per quanto Gray dichiari, in linea con il consueto titanismo, che il suo principale interesse sia la rappresentazione cinematografica più realistica di sempre del viaggio spaziale, ciò che più lo esalta è il discorso privato. L’incontro tra Pitt e Ruth Negga, un’altra figlia perduta, è non a caso tra le cose che, pur nella programmaticità dell’ingranaggio, funziona meglio.

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Se da una parte Gray cavalca l’idea della sci-fi come strumento per interrogarsi su chi siamo e dove andremo, dall’altra appare intrappolato in una più affascinante per evocazioni e suggestioni che persuasiva per quel che racconta col tono algido di chi non ha calibrato ragione e sentimento. La dichiarazione d’intenti dell’incipit, sugli uomini che da sempre ambiscono a viaggiare verso le stelle, è l’autobiografia dell’autore: sempre fondamentale, eppure troppo vincolato a modelli altrui per poter spiccare con la solita autonomia del suo sguardo neoclassico e spericolato.

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