Venezia 76 | Recensione: L’ufficiale e la spia (J’Accuse)

L’UFFICIALE E LA SPIA (J’ACCUSE, Francia-Italia, 2019) di Roman Polański, con Jean Dujardin, Louis Garrel, François Damiens, Emmanuelle Seigner, Grégory Gadebois, Mathieu Amalric, Melvil Poupaud. Storico drammatico. ****

Je suis Dreyfus. Oppure: Dreyfus c’èst moi. E lo stesso Roman Polański a dircelo. O perlomeno a indicarlo col dito. D’altronde non è difficile leggere nella filigrana del celebre caso le coordinate della vicenda giudiziaria dell’autore. Come si sa, il capitano Alfred Dreyfus, condannato per aver passato segreti militare all’impero tedesco, fu accusato ingiustamente in quanto tra i pochi ebrei nell’esercito francese. Solo l’impegno dell’ufficiale Georges Picquart permise al militare, dopo un decennio di lotta, di essere scagionato e liberato.

J’Accuse (che in Italia uscirà con il più asettico titolo L’ufficiale e la spia, traduzione di quello utilizzato dal mercato internazionale: come se quell’espressione resa celebre da Emile Zola non fosse già nell’immaginario e nei libri di storia proprio per il caso Dreyfus…) arriva in una fase delicatissima dell’ormai lunghissima carriera dell’ultraottantenne Polański, non solo per quanto concerne i contraccolpi del privato sul suo lavoro e sulla sua immagine pubblica, ma anche per il momento storico e politico in cui ci troviamo.

Se da una parte non si può non sorvolare sul ritorno nel dibattito della questione riguardante la violenza subita da una ragazza all’epoca minorenne da parte di Polański, dall’altra non possiamo non ricordarci l’orizzonte umano da cui proviene il regista. Figlio di deportati nei campi di sterminio, ha sempre vissuto quel comune dolore degli ebrei di essersi salvati, portando questo tema in molto del suo cinema fino all’apice di Il pianista, film con cui questo J’Accuse ha qualche affinità.

Il rigurgito antisemita e la più generale intolleranza dominante nella narrazione dei nazionalisti sono alla base di questa rievocazione che non va letta soltanto nella prospettiva di un period drama ma soprattutto in quanto allegoria di un’epoca attraversata dalla non-cultura del sospetto e dell’odio. Sceneggiatore assieme a Robert Harris (già al suo fianco nel grandissimo L’uomo nell’ombra), Polański è consapevole che questa storia è un modo per interpretare la realtà contemporanea: non solo l’antisemitismo ma anche le fake news che postulano lo stesso caso Dreyfus, il ruolo degli intellettuali incapaci di condizionare il popolo, le tentazioni autoritarie di sapore militare che subentrano laddove regna il caos.

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E dal punto di vista della regia, dopo alcune prove più “chiuse” nelle macchine teatrali, Polański corrisponde al rigore didattico della scrittura con una messinscena rosselliniana dal controllo quasi incredibile per lucidità e disciplina, capace di gestire la magnifica confezione senza mai impelagarsi nelle trappole polverose del polpettone, esaltandosi invece grazie alle possibilità date dal grande schermo. Un film d’autore nel senso più totale del termine: un’operazione chirurgica, un colpo di spada, una resa dei conti. Non serviva un altro film per avvalorare il suo posto nella storia del cinema: ma è così che si riconoscono i maestri, quelli veri.

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