Venezia 76 | Recensione: Martin Eden

MARTIN EDEN (Italia, 2019) di Pietro Marcello, con Luca Marinelli, Jessica Cressy, Carlo Cecchi, Marco Leonardi, Autilia Ranieri, Denise Sardisco, Carmen Pommella, Pietro Ragusa, Gaetano Bruni, Maurizio Donadoni, Chiara Francini, Aniello Arena. Drammatico. ****

Napoli è il porto in cui approderà sempre, dopo mille viaggi per mare, il marinaio Martin Eden. Ha un nome esotico per essere partenopeo ma accettiamo subito questa anomalia. Parte da qui, il patto stipulato tra l’autore desideroso di adattare liberamente il romanzo di Jack London all’universo italiano e lo spettatore chiamato ad accogliere una prospettiva tanto audace e complessa. Ed è solo il primo degli atti sovversivi di un film che ha qualcosa di unico nell’orizzonte italiano.

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Sono tre le istanze messe in campo da Pietro Marcello, al primo film mainstream della sua carriera: aggiornamento, adattamento, ripensamento. L’impalcatura del racconto resta lo stesso del romanzo: dopo aver salvato un rampollo dell’alta borghesia, Martin conosce sua sorella e, innamoratosene, decide di darsi un’istruzione per poter risultare degno agli occhi della ragazza e della famiglia. Ma, se è vero che chi più sa più può, il conflitto tra un vorace autodidatta dalla nuova coscienza civile e un ceto reazionario e liberale è inevitabile.

Assieme a Maurizio Braucci, Marcello non solo individua nel cuore di Martin Eden la chiave per accedere all’interpretazione di un intero secolo, ma lo assume, in un modo abbastanza spericolato, per rileggere l’Italia malgrado l’originale collocazione californiana all’inizio del Novecento. E lo fa sfuggendo all’inquadramento storico in favore di una fuga poetica dall’incidenza della cronologia ma non degli eventi della Storia, inserendo la vicenda in un periodo che accoglie tutto il cosiddetto secolo breve.

Dentro Martin Eden secondo Marcello si trovano le temperie filosofiche, i movimenti sociopolitici, le tragedie collettive, il quotidiano dei poveri: e dunque il socialismo, l’individualismo, il sindacalismo, le due guerre, il fascismo, i rigurgiti nazionalisti… Una miscellanea intellettuale che evita il pericolo del mischione perché dominata da un autore che – vivaddio – si assume il rischio di disorientare lo spettatore in un film che è in superficie un apologo morale e in profondità un saggio su una nazione.

E, inoltre, su un tessuto musicale che incrocia l’impressionismo di Claude Debussy e la voglia ‘e turna’ di Teresa De Sio, compone una partitura di immagini (montaggio di Aline Harvé e Fabrizio Federico) che conferma lo straordinario utilizzo dei materiali d’archivio: per sostenere e arricchire la narrazione, infatti, Marcello recupera frammenti del passato remoto e li fa colorizzare con l’obiettivo di creare continuità con ciò da lui girato. Anche la scelta del Super 16 è in funzione di questa liquidità temporale e spaziale ben esaltata dalla splendida fotografia di Francesco Di Giacomo e Alessandro Abbate.

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In più, Marcello s’inventa un film portuale del tutto fuori dalla tradizione italiana, costruendo una storia che ha sì a che fare con Napoli e la sua gente ma non rinuncia in un’ottica universale ad appartenere a tutto il Mediterraneo. Una tappa importantissima nel recente cinema italiano, della quale sarà opportuno riparlare in futuro. E poi c’è il gigantesco Luca Marinelli (che nel finale “adulto” somiglia al mentore Carlo Cecchi), nei cui occhi azzurri perforanti si annidano la brama di conoscenza, la nostalgia del passato, il dolore del ritorno, il bisogno di trovare un posto nel mondo, il pessimismo dei puri.

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