Recensione: C’era una volta a… Hollywood

C’ERA UNA VOLTA A… HOLLYWOOD (ONCE UPON A TIME IN… HOLLYWOOD, U.S.A.-G.B., 2019) di Quentin Tarantino, con Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Al Pacino, Emile Hirsch, Margaret Qualley, Timothy Olyphant, Julia Butters, Austin Butler, Dakota Fanning, Bruce Dern, Mike Moh, Luke Perry, Damian Lewis, Kurt Russell, Lorenza Izzo, Nicholas Hammond, Maya Hawke, Lena Dunham, Michael Madsen, Madisen Beaty, Brenda Vaccaro. Commedia drammatico. ****

È il 1969. Prima di tutto il cinema: la New Hollywood sta rivoluzionando l’industria, Dennis Hopper e Peter Fonda cavalcano le moto imponendosi come modello di riferimento per i giovani e bestia nera per le generazioni precedenti, la radio suona «Here’s to you, Mrs Robinson» e gli ammiccamenti tra adulti e ragazzi si scrollano di dosso i pudori, i registi del cinema d’autore ottengono dagli Studios i budget per girare opere perturbanti.

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Rick Dalton (Leonardo DiCaprio: la quintessenza della classicità in un ruolo dentro la decadenza della Hollywood classica) non è più la star del telefilm western che lo rese popolare un decennio prima. Ha una villa grande quanto la sua angoscia, beve troppo, lavora soprattutto come guest star nei panni del cattivo, ha sfiorato un ruolo importante (quello poi andato a Steve McQueen in La grande fuga) ma è riconosciuto protagonista di b-movie (nell’ultimo incendia i nazisti con un lanciafiamme, da vero bastardo senza gloria). Dunque gli propongono di andare in Italia per interpretare qualche spaghetti western con Sergio Corbucci.

Il suo stuntman, Cliff (sommo Brad Pitt, da premio), vive in simbiosi con lui. Ha qualche in più, è un eroe di guerra e ha probabilmente ammazzato la moglie, quindi i cascatori non vogliono più farlo lavorare perché non si fidano. Sconfigge Bruce Lee in uno scontro “amichevole”, si accontenta di vivere la vita spericolata a bordo dell’auto o sul tetto di Rick per aggiustargli l’antenna, abita in una roulotte con una cagna vorace e fedele.

Due disperati, insomma, due abitanti del sottobosco hollywoodiano. Sono personaggi inventati, come C’era una volta… impone. Ma quello di Quentin Tarantino non è solo un racconto di fantasia, una narrazione intessuta a partire dai personaggi: è una propaggine della filosofia di Sergio Leone, che nei suoi C’era una volta… non ripercorreva la storia ufficiale del West e dell’America ma rievocava la loro mediazione cinematografica.

Autore di un cinema dentro il cinema, cinefilo nella misura in cui il feticismo ha a che fare con l’amore, Tarantino fa uno scatto del tutto dentro la sua poetica: c’era una volta Hollywood, certo, ma ad Hollywood, secondo le regole del cinema hollywoodiano. La realtà è un canovaccio, il contesto entro cui ambientare una narrazione in gloria della fantasia, della reinvenzione, del ripensamento, i personaggi reali sono spunti su cui ricalcare ipotesi di star plasmate secondo l’idea che l’autore si è creato attraverso la loro vita cinematografica.

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Steve McQueen è un’apparizione alla festa che ribalta la sua fama di invincibile sciupafemmine, Bruce Lee si comporta come nel Calabrone verde salvo scontrarsi con il potere delle controfigure, Roman Polański un dandy polacco piuttosto bruttino ma da tutti considerato il regista del momento. E Sharon Tate, vero motore del film, diventa per Tarantino un’estensione del suo ruolo in Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm, ovvero una ragazza dalla bellezza imbarazzante eppure soprattutto simpatica, ironica, accogliente.

Già destinata alle antologie, il momento in cui Sharon (Margot Robbie: che carisma, che economia, che splendore) va al cinema a vedersi nel film appena citato è uno dei passaggi teorici più importanti per capire non solo C’era una volta a… Hollywood o tutto Tarantino, ma anche per ragionare su cosa sia oggi il racconto di una storia vera attraverso la prospettiva di un autore, sul rispecchiamento deformante tra realtà e finzione al crocevia dell’omaggio commosso di uno spettatore che ha ora i mezzi per rimettere le cose a posto: ovvero sistemare la realtà all’altezza dei sogni, beffare la morte grazie alla potenza eternizzante del cinema.

A cinquant’anni dalla Summer of Love, C’era una volta a… Hollywood prende spunto, si sa, dall’omicidio di Tate e altri quattro amici per mano della famiglia Manson. C’e chi dice che quel delitto determini la fine di un’epoca, la perdita dell’innocenza trasfigurata attraverso una tragedia che incrocia le star cinematografiche e la generazione cresciuta con le immagini (i fanatici membri della setta che giustificano l’atto come vendetta contro chi li ha educati alla violenza).

Tarantino coglie l’occasione dell’anniversario per realizzare un film che è essenzialmente tre cose. Uno: una crepuscolare, orgiastica, tristissima ode nostalgica a un mondo al suo tramonto, attraverso il recupero, la resurrezione, la reinvenzione di facce e corpi, convocando feticci (Michael Madsen, Kurt Russell, Tim Roth tagliato nel montaggio come molti altri) e icone (Al Pacino, compreso il fantasma di Burt Reynolds morto prima delle riprese e sostituito da Bruce Dern), star della tv d’oggi nel ruolo di star della tv di ieri (il compianto Luke Perry, Timothy Olyphant) e emuli ipotetici (Damian Lewis, Mike Moh).

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Due: una non-storia fatta su misura e fatta da personaggi emblematici che ne rappresentano l’impalcatura stessa. DiCaprio/Dalton che vive solo il set e la casa zeppa di suoi manifesti come lo stereotipo di una star dedita alla noia, ai tormenti e all’alcolismo; Pitt/Cliff come affascinante flâneur con la sapienza dell’istinto, il tempo corto e le rughe che solcano il volto di un fisico da giovane palestrato; Robbie/Tate nei succinti e mai volgari abiti di un incantevole angelo destinato a cadere e però reso eterno dal grande schermo.

Tre: uno scatenato, toccante, struggente revenge-movie in cui Tarantino si vendica della realtà attraverso il cinema. Niente spoiler, ma il meccanismo è già stato utilizzato dal suo autore su alt(r)a scala. Se non si può tornare indietro, si può creare un universo alternativo: ed è in questo che Tarantino ridà vita ai fantasmi, salva i sommersi e li lascia riemergere in una fine impossibile e perciò necessaria, rivoluziona la realtà perché, banalmente, non gli sta bene. Non ci sta bene.

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