IL RE LEONE (THE LION KING, U.S.A., 2019) di Jon Favreau. Animazione musical drammatico. ** ½
Da sempre, per fidelizzare il suo pubblico e soprattutto i genitori dei suoi spettatori di riferimento, la Disney ha riproposto se stessa per intercettare le nuove generazioni che non avevano visto in diretta i film usciti in sala. Se prima, in un’epoca precedente all’home video, la ciclica riedizione dei classici al cinema permetteva questo rinnovamento, e dopo (dagli anni Novanta) si è passato a una bulimia che ha portato l’azienda a produrre un appuntamento annuale per venire incontro a un pubblico desideroso di novità, le cose sono cambiate quando lo Studio ha preso consapevolezza dei cambiamenti della società dello spettacolo.
Uno: l’originale Il re leone resta uno dei classici Disney più amati anche in virtù della sua storia non direttamente derivata da un testo specifico ma da un corpus di ispirazioni che vanno dall’Amleto all’animazione giapponese. Il film è talmente forte – e a suo modo “unico” per la capacità di piacere a un pubblico molto trasversale – che ha goduto di un’edizione in 3D, utile, in quella fase di sbornia tridimensionale, solo per la fruizione da una parte dei più piccoli non ancora nati nel 1994 e dall’altra dei “bambini cresciuti” suggestionati dall’evento.
Due: la Disney ha capito che la più importante tendenza del decennio è l’industria della nostalgia. Per esempio, l’inesauribile serbatoio degli anni Ottanta ha generato Stranger Things, Ready Player One, It, Ghostbusters e chi più ne ha più ne metta. Oppure la proliferazione di sequel: chi ha visto il primo Avengers appena otto anni fa vive l’ultimo capitolo come una festa di commiato, vedendo nel prototipo un pezzo di una giovinezza benché prossima già oggetto di rimpianto.
Tre: cosa può fare con la nostalgia un’azienda che si è sempre protesa in avanti, sperimentando nuove tecnologie per raccontare narrazioni antiche o perlomeno consolidate? L’operazione che ha scelto, più o meno da subito, è farcire la sontuosità di confezioni perfette e più vere del vero con quelle storie così intramontabili, arricchendole di dettagli e divagazioni che prima non poteva permettersi e oggi, sia per la durata dilatata sia per un certo mutamento nella prospettiva del film d’animazione, si concede di buon grado.
Tutta questa introduzione per dire che Il re leone va un po’ preso per quello che è: l’ennesima prova di forza di un colosso dell’intrattenimento che riesce a lavorare in equilibrio tra l’apparente libertà tematica e il ricalco scrupoloso del modello. La ricetta del perfetto remake disneyano, insomma: nostalgia per accontentare gli spettatori più grandi, con riproduzione delle scene iconiche; fotorealismo, come nell’apripista Il libro della giungla diretto dallo stesso Jon Favreau, per lasciare a bocca aperta; una nuova canzone oltre quelle già popolari per dare l’idea che ci sia qualcosa di nuovo; un grande cast vocale (almeno nell’originale).
In questo caso, l’idea, nel doppiaggio americano, è stata quella di seguire la suggestione africana convocando star black, dai divi Donald Glover (Simba adulto) a Beyonce (Nala adulta) passando per lo shakespeariano Chiwetel Ejiofor (Scar) fino al veterano James Earl Jones (Mufasa, come nell’originale). A suo modo, cerca di inserirsi nel solco di quel cinema “black power” che ha l’obiettivo di rivendicare spazi per una rappresentazione più equa e coerente. Prospettiva che, va da sé, nell’adattamento italiano si perde totalmente.
Per il resto, in Il re leone, produzione costosissima ma cosciente della sua redditività, c’è tutto ciò che ti aspetti – e l’incasso stratosferico lo dimostra. Qualche passaggio viene argomentato con maggiore approfondimento (Scar che propone a Sarabi di diventare la sua regina, la fuga di Nala), certe caratteristiche comiche dei comprimari Zazu e Rafiki sono attenuate in favore di una leggera severità, si gioca su allegorie e simboli più sofisticati per venire incontro alle possibilità del fotorealismo.
A mancare, tuttavia, sotto la perfezione impeccabile di un aggiornamento innovativo che acuisce la verosimiglianza, è il cuore pulsante di una narrazione che, pur mantenendosi sullo stesso piano dell’originale, si rivela via via una fredda e scaltra ripresa priva di una vera potenza emotiva, incapace di imboccare la strada verso un immaginario estetico brillante ed evocativo. Tutto bene, d’accordo, ma tutto un po’, come dire, pleonastico, meccanico, monotono.