Corrado Alvaro, Giorgio Bassani, Aldo De Benedetti, Diego Fabbri, soprattutto Cesare Zavattini, Ennio Flaiano, Mario Soldati. Nel dopoguerra, il cinema italiano ha spesso delegato loro la stesura di sceneggiature con l’ambizione di proporre una lingua più aderente alla realtà. E costoro accettavano di buon grado, perché il lavoro garantiva la cospicua retribuzione non sempre assicurata dall’attività editoriale. Perciò Riccardo Molteni, il protagonista de Il disprezzo di Alberto Moravia, scrive per il cinema, consapevole, come l’autore, della lateralità dello sceneggiatore rispetto al regista. Accantonata la carriera teatrale, deve guadagnare per accontentare il desiderio della moglie di acquistare un appartamento.
Nel 1954, anno di uscita del romanzo, Moravia non è solo una star della letteratura europea ma anche organico al cinema: adatta con Bassani, Flaiano e Luigi Zampa il suo La romana, collabora a La donna del fiume di Soldati (già regista della trasposizione di La provinciale), è autore di cui si serve Alessandro Blasetti per Peccato che sia una canaglia e Il pupo (episodio di Tempi nostri). Tuttavia, il vero calco di Molteni è Vitaliano Brancati, che accettò di scrivere una sceneggiatura per esaudire il desiderio immobiliare della moglie Anna Proclemer (per la cronaca: firmato l’atto di compravendita, lei lo lasciò).
In una prosa non lineare, sospesa tra alienazione e trasparenza, Il disprezzo parla proprio della fine di un matrimonio, e certo vi leggiamo influenze della crisi con Elsa Morante. Tema molto moraviano, ma con qualche spunto interessante sulla macchina-cinema. Incaricato dal produttore Battista di sceneggiare l’Odissea per il regista tedesco Rheingold, Molteni si rispecchia in Ulisse che, non sentendosi amato da Penelope, impiega dieci anni per tornare ad Itaca. Indiscutibile il riferimento al kolossal Ulisse, pensato proprio nel ’54 da Carlo Ponti e Dino De Laurentiis per la regia del decaduto Georg Wilhelm Pabst (poi sostituito da Mario Camerini).
Il cortocircuito tra realtà e finzione esplode nel ‘63, quando Ponti commissiona la versione cinematografica del romanzo a Jean-Luc Godard. Consapevole della differenza tra le due forme espressive e noto per essere piuttosto distaccato dai rifacimenti sul grande schermo dei suoi testi, Moravia trova in Godard non un fedele illustratore ma l’interprete iconoclasta di un romanzo da lui sdegnosamente disprezzato («un volgare e grazioso romanzo da stazione, pieno di sentimenti classici e fuori moda, nonostante la modernità delle situazioni»). D’altronde al regista non interessa il punto di vista dello scrittore ma il pretesto dato dalla sua trama: l’indagine sul trauma.
Nel film, Riccardo ed Emilia Molteni diventano i francesi a Roma Paul e Camille Javal (ovvero Brigitte Bardot e Michel Piccoli): il debito dichiarato è nei confronti dell’amato Viaggio in Italia di Rossellini, guarda caso altro caposaldo del fatale ‘54. Ma la differente nazionalità rispetto al romanzo muta i rapporti di forza: per legittimare il disprezzo verso il marito, la moglie francese può minacciare il divorzio ancora negato a quella italiana. Una sottigliezza, però rimarca che il legame può interrompersi anche legalmente e non solo con l’abbandono.
Puerile donna di casa con smanie piccolo-borghesi, Emilia è altresì decantata da Moravia come incarnazione della bellezza assoluta: ovviamente non immaginata nell’atto della scrittura, precedente alla sua ascesa divistica, B.B. sembra l’unica interprete possibile per la misteriosa, indefinibile protagonista, piena di grazia e maestà. Una suggestione ravvisabile sin dalla prima sequenza a letto, quando Paul dichiara il suo amore per tutte le parti del corpo di Camille (un pezzo del romanzo si sdilinquisce nell’elogio del corpo femminile: le più belle spalle, il più bel collo…), fino a quella in cui la parrucca nera di Louise Brooks diventa immagine dell’inafferrabilità della donna.
Ma c’è un evidente scarto tra le due narrazioni, ben espresso dal motivo che induce Molteni a prediligere il teatro a scapito del cinema: se nel romanzo è Rheingold, un ex-grande compiaciuto del proprio fu genio, a deludere lo scrittore, nel film Fritz Lang, che fa un olimpico Fritz Lang, agisce da coscienza critica, annullando l’antipatia ed incarnando ciò che il cinema dovrebbe essere. Godard trascende Moravia: il cinema non più come uno strumento in funzione della storia ma parte di un discorso ribaltato che trova in un romanzo che non gli interessa il pretesto per un film sulla purezza del cinema.
Il resto è storia. Visionato il materiale, Ponti decide di intervenire: censura e rimonta, taglia e cuce, italianizza e semplifica, cambia i dialoghi e sostituisce gli archi di Georges Delerue con il jazz di Piero Piccioni. Risorge grazie a un restauro che recupera il montaggio originale. Oggi, al di là di tutto, è difficile non restare avvinti dall’immagine iconica di B.B., dalla straniante ambientazione nella villa caprese di Curzio Malaparte, dall’aura maledetta di un film che sembra funzionare perché nessuno pare in accordo con l’altro.
IL DISPREZZO (LE MÉPRIS, Francia-Italia, 1963) di Jean-Luc Godard, con Michel Piccoli, Brigitte Bardot, Jack Palance, Giorgia Moll, Fritz Lang. Drammatico. ***