JUDY (G.B., 2019) di Rupert Goold, con Renée Zellweger, Bella Ramsey, Rufus Sewell, Gemma-Leah Devereux, Finn Wittrock, Jessie Buckley, Michael Gambon, Richard Cordery. Biografico drammatico. ** ½
Senza troppe sorprese, Judy segue la tendenza generale del biopic contemporaneo: isolare una fase specifica della vita del soggetto per rappresentarla e spiegarla nella sua complessità. Concentrarsi su un determinato momento permette almeno due vantaggi: quella facile compattezza narrativa che la biografia completa può garantire solo se si avvale di una sapiente scrittura; e l’assolo dell’interprete che può spadroneggiare in un ruolo va da sé imponente.
In realtà, Judy – che si rifà al testo teatrale End of the Rainbow, adattato in Italia con Monica Guerritore – intreccia il tramonto della carriera (e della vita) di Judy Garland, malandata e decaduta quarantasettenne dedita all’alcol e praticamente disoccupata, con i funesti ricordi della giovinezza sul set, da quello “formativo” di Il mago di Oz in cui quattordicenne è sottomessa al tirannico Louis B. Mayer a Ragazzi attori con Mickey Ronnery, dove cerca invano di ribellarsi alle troppe anfetamine somministratele per non avere appetito e troppe pillole per non dormire.
Da questo punto di vista, il film è abbastanza e giustamente didascalico nel definire l’abisso interiore di una donna, alla quale è stata negata l’infanzia, che lavora dall’età di due anni, non ha alcuna dimestichezza con il mondo esterno allo star system, cambia marito con troppa frequenza, non sa garantire stabilità economica ai figli, asseconda le lusinghe di chi la venera perché bisognosa in maniera disperata di un amore forse mai davvero ricevuto.
La scelta di raccontare il ciclo di concerti del 1969 a Londra, sei mesi prima che la Garland morisse, è indicativa. Mette al centro una donna allo sfascio, fragile e tragica, distrutta dall’alcolismo, da problemi di salute e da un’esistenza piena di sostanze, chiamata a portare in scena la se stessa migliore: la raggiante performer dal repertorio sterminato, la sacerdotessa della religione americana dell’entertainment, Dorothy forever. Un corpo segnato da eccessi e abusi che di fronte al pubblico ritrova un motivo per continuare a vivere (gustosa la battuta sugli anelli della sala concerti).
A differenza dell’accomodante Bohemian Rhapsody e più simile (anche per l’asse anglo-americano) allo struggente Le stelle non si spengono a Liverpool, Judy è un racconto empatico ma non agiografico, indulgente nella misura in cui contestualizza la diva cresciuta in fretta all’interno di un crudele orizzonte industriale e culturale. Costituisce per Renée Zellweger la grande occasione per tornare a brillare dopo anni di appannamento, e lei fa tutto ciò che impone il codice non scritto per vincere un Oscar.
In un’interpretazione a metà tra il Metodo e l’effetto Tale e quale show, sgrana gli occhioni e canta con la propria voce, sfoggia le faccette e ammicca alla commozione, si muove alcolica e sospesa in una dimensione di costante ebbrezza. Dilaga e nasconde, cannibalizza un biopic più decoroso che appassionante che vive in funzione delle sue azioni sempre eclatanti, sfodera la superficie dell’immedesimazione e lascia intendere la comprensione verso un’icona dolente e una donna devastata. Abbastanza stucchevole benché d’effetto il finale, ascesa e caduta con suggestioni musical.