Metello | Mauro Bolognini (1970)

Per quanto riguarda la questione delle trasposizioni dei romanzi sul grande schermo, Vasco Pratolini – che ha scritto anche alcune sceneggiature per altri – è stato piuttosto fortunato. Se Valerio Zurlini (Le ragazze di San Frediano ma soprattutto il capolavoro Cronaca familiare, nonché l’incompiuto Lo scialo, poi diretto da Franco Rossi) ne è l’interprete più affine, l’appuntamento con Mauro Bolognini per l’adattamento di Metello si rivela molto convincente, all’epoca molto apprezzato e oggi un po’ rimosso.

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Dopo alcune prove non proprio indimenticabili, Bolognini torna ai fasti dei primi anni Sessanta (Il bell’Antonio, La viaccia) e trova finalmente l’occasione di dimostrare la propria suprema capacità di messinscena. Metello, infatti, è anzitutto un saggio di regia, in cui l’apparente calligrafismo della minuziosa ricostruzione d’epoca non è da leggere nell’ottica dello sfoggio figurativo o perfino estetizzante – certo, è meravigliosa la fotografia di Ennio Guarnieri che guarda alle stampe d’epoca, e altrettanto strepitosi sono i lavoro dello scenografo Guido Josia e del costumista Pier Luigi Samaritani, supervisionato da Piero Tosi – ma come spazio intellettuale dove misurare e scandagliare le differenze e le somiglianze tra passato e presente.

Non è un caso che Metello compaia nel 1970, in piena contestazione, anticipando La classe operaia va in Paradiso diventandone, se non il sintomo, quasi il presagio, la prefazione che guarda alle prime lotte tra operai e padroni per intercettare lo spirito contemporaneo. Sceneggiato da Bolognini con Suso Cecchi D’Amico, Luigi Bazzoni e Ugo Pirro, il film abbraccia i primi venticinque-trent’anni di vita del protagonista, rimasto orfano in fasce (cammeone di Renzo Montagnani nel ruolo del padre) e diventato muratore via via sempre più cosciente della propria coscienza di classe.

Ragazzo cresciuto in fretta e fieramente convinto a sostenere la nuova temperie socialista per il bene della collettività, Metello si staglia quale figura ideale chiamata a difendere i deboli nel conflitto con il capitalismo rappresentato dagli imprenditori sfruttatori. Il volto antico aiuta Massimo Ranieri (doppiato in fiorentino da Rodolfo Baldini) a incarnare un eroe dai tratti a metà tra l’epica neorealista di un quadro di Renato Guttuso e la fresca “scugnizzeria” del bravo ragazzo – comunque dall’occhietto malizioso.

Al filone politico-sindacale, che fa da tessuto al film e ha il suo zenit nella convulsa sequenza del funerale, s’intreccia quello sentimentale: prima la relazione tra Metello e una matura vedova che cercherà sempre di proteggerlo e assisterlo (splendida Lucia Bosè), poi il matrimonio con la figlia di un muratore morto sul lavoro (straordinaria Ottavia Piccolo, premiata per la miglior attrice a Cannes), infine la scappatella con la giuliva vicina di casa (la scaltra Tina Aumont: grande il catfight con la Piccolo).

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Forse oggi la traccia melodrammatica funziona meglio di quella socio-politica, probabilmente troppo legata alla ricerca dei parallelismi tra fine Ottocento e clima sessantottino, ma continua tuttora a trasmettere non di rado una forza da cinema popolare di grande effetto anche con la complicità di un Ennio Morricone in grande spolvero, toccando vertici di indiscutibile empatia grazie al necessario manicheismo di certe situazioni o alcuni personaggi (grandioso il padrone zoppo di Corrado Gaipa). Una cartolina decadente che arriva da lontano, una pagina di storia che riprende vita, un sorprendente romanzo di formazione.

METELLO (Italia, 1970) di Mauro Bolognini, con Massimo Ranieri, Ottavia Piccolo, Tina Aumont, Lucia Bosè, Frank Wolff, Renzo Montagnani, Steffen Zacharias, Pino Colizzi, Manuela Andrei, Luigi Diberti, Corrado Gaipa, Mariano Rigillo, Adolfo Geri, Franco Balducci. Drammatico. *** ½

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