All’uscita fu un mezzo shock: cosa diavolo è successo a Woody Allen? Nuova tappa del tour europeo, ovvero nel continente che più lo ama e lo rispetta, dopo l’imprevisto ma glorioso exploit di Midnight in Paris – che però giocava facile sull’onda di una patina nostalgica più “accessibile”, su un sogno trasversale che intercettava lo spirito della lost generation – l’appuntamento italiano sembrava spericolato ma tutto sommato gustoso. Invece non piacque praticamente a nessuno e per fortuna arrivò l’americanissimo Blue Jasmine a ricordarci la sua indiscutibile statura d’autore.
A distanza di qualche anno possiamo dire che, insomma, certo, non resta un gran film, anzi. È la quintessenza del film sbagliato di un grande autore più che quella del film mancato. Brutto, mancato o sbagliato, è comunque l’atto artistico infinitamente più interessante di mille altri. Sotto quel titolo goffo, in buona sostanza perfino bugiardo perché l’amore è mera illusione, Allen allestisce una veglia funebre penetrando nei luoghi comuni della cartolina monumentalizzata anzitutto dal cinema stesso.
Una cover postmoderna di Due settimane in un’altra città, un’elegia alla nostalgia del ritorno impossibile, un salto indietro nel passato cercando di restare invano ancorato alla realtà contemporanea espressa sulla superficie delle coordinate spazio-temporali. Perché, sì, è il terzo millennio ma siamo nella città eterna: il tempo non esiste, lo spazio è un non-luogo che comprende le rovine imperiali, i marmi barocchi, le trattorie trasteverine, il verde rigoglioso delle piante, i cromatismi tra l’ocra e il mattone.
Bob Decameron, secondo il titolo di lavorazione: un intreccio di novelle mentre fuori c’è l’epidemia del realismo, una fuga senile nell’immaginario da commedia rosa dello straniero in vacanza fermo a Tre soldi nella fontana. Un film di fantasmi: il flâneur Alec Baldwin che forse non esiste ma gira per le vie dispensando consigli sentimentali a Jesse Eisenberg, ipotesi di un se stesso giovanile. Film di specchi deformanti: Eisenberg che è a sua volta l’ennesimo replicante moderno del giovane Allen.
Film di surrogati: Penélope Cruz, la diva spagnola per eccellenza, talmente iconica da permettersi il lusso di far rivivere il sex appeal mediterraneo delle maggiorate alla Sophia Loren, con il nome palindromo dell’attrice italiana più imponente, Anna Magnani e la professione che tutte le attrici italiane prima o poi hanno interpretato (la puttana dal cuore d’oro). Film di stereotipi: Roberto Benigni, l’ex comico sovversivo che un equivoco ha reso mito americano per lo spazio d’un mattino, recuperato in virtù dell’ormai antico credito in un episodio a dir poco anacronistico, quasi un ritaglio zavattiniano.
Ma anche il tenore Fabio Armiliato, esponente dell’universo lirico fruito soprattutto dagli stranieri e da noi relegato a un consumo elitario o banalizzato dal bel canto in salsa pop: metterlo in questo collage è assolutamente pertinente, perché la Roma di Allen non appartiene alla verità, è un prodotto della fantasia plasmato dal turismo, dalla mediocrità, dalle letture convenzionali del nostro apparato culturale. Un esempio perfetto di “flirting with disaster”, un film sconclusionato e sgangherato, tanto mortuario quanto assurdamente vitale.
TO ROME WITH LOVE (Italia-U.S.A.-Spagna, 2012) di Woody Allen, con Woody Allen, Judy Davis, Roberto Benigni, Penélope Cruz, Alec Baldwin, Jesse Eisenberg, Greta Gerwig, Ellen Page, Alessandro Tiberi, Alessandra Mastronardi, Antonio Albanese, Alison Pill, Fabio Armiliato, Riccardo Scamarcio. Commedia. **