È bello che, all’età di settantanove anni, Marco Bellocchio abbia raggiunto uno dei successi più compiuti della sua ormai lunga e gloriosa carriera. Con Il traditore, biopic dedicato a Tommaso Buscetta, non solo ha ottenuto lodi dalla critica e premi da ogni dove, ma ha intercettato il gusto di un pubblico sempre meno prevedibile nelle sue scelte, rimanendo in sala per almeno tre mesi, un periodo davvero notevole considerate le attuali abitudini della distribuzione.
E, per la terza volta dopo La Cina è vicina e Salto nel vuoto, è stato proposto dall’Italia per rappresentarci alle candidature per l’Oscar al miglior film straniero, da quest’anno denominato “internazionale”. E Il traditore è proprio un film “internazionale”: nato come una serie tv, ne ha mutuato la narrazione distesa su un formato più lungo del solito (due ore e mezza), la vocazione cosmopolita di una storia organizzata su due continenti, la messinscena votata al primo piano, l’attenzione alla costruzione dei caratteri…
Garantito da un budget di alto livello, non ha comunque tradito se stesso, anzi: si è adattato con suprema intelligenza d’autore alle possibilità di una produzione sontuosa, portandovi in dote lo sguardo ribelle di un autore mai conciliato, la saggezza data da un’anagrafe che in realtà non lo fa affondare nelle secche del paternalismo ma gli permette quell’elasticità mentale che gli permette la disponibilità a sperimentare, scoprire, esplorare.
Sarà, forse, pure per l’attivismo culturale nella formazione, essendo da tempo responsabile del laboratorio di Bobbio, un’iniziativa culturale e professionale che lo mette accanto a Ermanno Olmi e al suo Ipotesi Cinema. Ma è indiscutibile che, a differenza di colleghi più giovani, Bellocchio si dimostra sempre il più pronto a cambiare la pelle del genere, del formato, dell’impianto senza snaturarsi, restando ancorato alla visione incandescente del giovane che continua a tenere vivo dentro i suoi occhi aperti sul mondo.
Se pensiamo che appena dieci anni fa aveva diretto quel capolavoro funebre e vitalissimo che è Vincere – e che poi ha ribadito la costante attenzione all’opera (Rigoletto a Mantova per la tv), lo sperimentalismo di frammenti compattati in una sinfonia familiare (Sorelle Mai) o in un horror locale (Sangue del mio sangue), la tensione civile in una rabbiosa mediazione lirico-politica (Bella addormentata) – viene da pensare: cos’altro può fare un autore tanto imprevedibile nel manifestarsi sempre spiazzante?
Uno che sa rivoluzionare dall’interno il concetto di adattamento letterario per piegarlo alla sua prospettiva, trasformando le opere altrui in qualcosa che sembrano appartenere all’esperienza personale: l’inquietante ripensamento del memoir Fai bei sogni in un flusso cupo e tenebroso come approdo dopo le trasposizioni pirandelliane che affondano in temi del tutto privati, dall’oblio della ragione di Enrico IV al perturbante materno di La balia, senza omettere le fughe alienanti di vite come messinscene (Il principe di Homburg) e l’imprendibile lettura del Gabbiano di Cechov.
Uno che è riuscito a emanciparsi da una presenza importante per il se stesso uomo privato quanto ingombrante per la carriera di un regista lanciatissimo, quel Massimo Fagioli che lo seguiva nel percorso psicanalitico e ha interpretato le inquietudini del paziente in una serie di film controversi e disorientanti, dall’apice di Diavolo in corpo alle terribili prese di posizione di La condanna e Il sogno della farfalla.
Uno che il caso Moro lo sta continuando a vivere come una ferita collettiva, come un sopravvissuto che si è salvato dalla follia cieca dell’odio e del buio della ragione e ha visto cadere la sua generazione incapace di cambiare il mondo. È chiaro che il cuore sia Buongiorno, notte, per chi scrive film capitale della vita, libera e sofferta ipotesi domestica di un dramma nazionale, tra il sogno di un futuro impossibile e la putrefazione del passato. Ma il terrorismo pervade tutto, dal presagio Sbatti il mostro in prima pagina (diretto per caso) fino alle famiglie segnate dalla morte (specchio intimo) di Salto nel vuoto al tempo fermo di Enrico IV.
Uno che le tragedie familiari le ha sublimate per ribaltare il banco (I pugni in tasca, l’opera prima per eccellenza), piegarle al grottesco (La Cina è vicina), autoanalizzarsi per provare a superare il dolore (Gli occhi, la bocca). Che non ha mai rimosso lo spirito sovversivo e antiborghese di Nel nome del padre come dimostra un atto politicamente violentissimo come L’ora di religione. Una carriera che è un testo aperto, un gioco al rialzo, una seduta collettiva. Da riscoprire, ora che Marco Bellocchio è diventato uno splendido ottantenne e resta il più grande regista italiano vivente.