PARASITE (Corea del Sud, 2019) di Bong Joon-ho, con con Song Kang-ho, Sun-kyun Lee, Yeo-jeong Jo, Choi Woo-Sik, Park So-dam, Hyae Jin Chang. Grottesco. *****
Come in una versione contemporanea e più grottesca della linea politico-narrativa dell’universo riplasmato da Julian Fellows tra Gosford Park e Downton Abbey, il discorso sul conflitto sociale tra classe dominante e classe subalterna è anzitutto una questione di interni. La prima è al piano di sopra, vive i riti del proprio ceto senza interessarsi alle cose di un mondo che non sia il proprio, abita spazi domestici che corrispondono alle mode, al gusto, al décor del periodo. La seconda è sotto, spesso nel buio, in stanze senza finestre, quasi sempre con una densità troppo elevata.
Parasite parte da qui, dagli spazi. C’è una famiglia che abita in un sottoscala piuttosto squallido, un buco pieno di insetti con una finestrella che ridà sulla strada pullulante di gente che orina o vomita. Sono sporchi, sudati, piegano cartoni per mettere da parte qualche soldo, scroccano la connessione wifi per evadere dalla miseria almeno sul piano delle illusioni. E ce n’è un’altra, ricca, praticamente perfetta sulla superficie del privilegio, che vive in un capolavoro di villa progettato da un archistar.
Le loro strade s’incrociano quando i membri della famiglia più povera riescono a farsi assumere, sotto mentite spoglie e seguendo un piano graduale, dalla famiglia più ricca. Ciascuno con la propria mansione (insegnante d’inglese, educatrice in ambito artistico, autista, governante), ogni povero diventa in un certo senso indispensabile all’economia dei ricchi, in un sottile gioco perverso che deflagra quando qualcuno – che ha tuttavia qualcosa da nascondere nelle stanze più nascoste della casa – intende svelare la strategia fraudolenta dei parassiti.
Chi sono davvero i parassiti nell’epoca in cui il progresso tecnologico illude che tutti siamo uguali, soprattutto mentre il divario socioeconomico tra le persone si allarga sempre di più? Bong Joon-ho padroneggia la regola del gioco – per citare un archetipo di questo tipo di film, forse l’ingranaggio originario – di un’allegoria sulla lotta di classe e tra i corpi della stessa classe, una commedia nera sotto acido sulle disuguaglianze sociali nella società del neoliberismo.
Una storia di fantasmi e angeli sterminatori, odori che tradiscono le origini e mutandine con le quali eccitarsi, pesche come armi e rocce misteriose, passaggi segreti e messaggi in codice, umiliazioni e vendette. In equilibrio tra le ambizioni intellettuali e la mano tesa al pubblico, ragionando con la geometria e la politica (sopra e sotto, verticale e orizzontale, dentro e fuori), Bong libera la propria potenza visionaria in un coacervo di metafore e doppie letture, riuscendo a svincolare il dato particolare portando la storia su una dimensione più globale, costruendo un film fruibile a tutte le latitudini.
La commedia, sebbene nel suo viraggio più oscuro, si conferma il luogo cinematografico in cui meglio misurare lo stato dei conflitti sociali: dopo una prima, rocambolesca parte improntata su film di truffa, un imbroglio che regge anche grazie al clamoroso personaggio della benestante e ottusa signora bene, con un twist inatteso si slitta verso il thriller al cardiopalma fino al pre-finale tra la catastrofe ambientale dunque sociale e la rivolta impensabile che conduce a un epilogo quasi straziante. Cinico e scatenato, ironico e pessimista, alla fine del decennio, Bong ha fatto il film perfetto per decifrare il nostro tempo.