Recensione: Cetto c’è, senzadubbiamente

CETTO C’È, SENZADUBBIAMENTE (Italia, 2019) di Giulio Manfredonia, con Antonio Albanese, Nicola Rignanese, Gianfelice Imparato, Caterina Shulha, Aurora Quattrocchi, Lorenza Indovina, Davide Giordano, Massimo Cagnina, Mario Cordova, Luigi Petrucci. Commedia. **

Non si capisce bene a chi voglia esattamente rivolgersi, il terzo capitolo di quella che scopriamo essere la cosiddetta Trilogia du Pilu. L’ottimo risultato al botteghino potrebbe far tagliare corto: Cetto c’è perché il pubblico c’è, senzadubbiamente. Nell’ottica dell’usato sicuro, sembra avere il suo senso il ritorno dopo sette anni del politico calabrese. E, a quanto pare, gli spettatori italiani sembrano divertirsi con le nuove avventure del peggior rappresentante della classe dirigente nazionale. Eppure il problema è tutto qui: il divertimento.

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Se Qualunquemente – che, ricordiamolo, apparve all’apice della stagione erotico-decadente del berlusconismo – funzionava a suo modo come esasperazione iperrealistica di qualcosa che vedevamo nel quotidiano politico e Tutto tutto niente niente portava all’eccesso della caricatura parodica la confusione della frammentazione tra la presunta fine del bipolarismo e l’inizio del populismo, Cetto c’è, senzadubbiamente vorrebbe parafrasare in maniera grottesca la realtà contemporanea: il sovranismo, l’antieuropeismo, l’autoritarismo, la socializzazione della politica.

Superato all’ultimo dall’ambigua (ma nemmeno tanto: l’estetica era palesemente para-The Crown) operazione commerciale di Netflix che ha fatto credere per qualche minuto che Emanuele Filiberto di Savoia era intenzionato a scendere in campo o addirittura a fare un colpo di stato, il film appare già in una certa misura anacronistico nell’immaginare una restaurazione monarchica, benché il casato non sia quello sabaudo ma l’immaginaria stirpe dei Buffo di Calabria, di cui Cetto sarebbe l’ultimo discendente.

In realtà si tratta di una macchinazione ordita dal Conte Venanzio (il sempre puntuale Gianfelice Imparato) che ha scelto Cetto come cavallo di Troia – ed eventuale vittima sacrificale in caso di fallimento – per imporre la monarchia in Italia e ricostituire il regno borbonico con l’appoggio del Vaticano. Il bersaglio di Antonio Albanese e Giulio Manfredonia non è tanto la new wave post monarchica quanto naturalmente Cetto stesso, colto nel delirio d’onnipotenza che acuisce un’ossessione intrisa di brama di potere, bisogno di popolarità e tendenza alla transmedialità.

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Al terzo capitolo in un decennio, verrebbe da chiedersi quale sia davvero l’intento di Albanese-Manfredonia. Se è, come credo, la parafrasi e l’interpretazione in termini grotteschi della politica italiana, come Fantozzi voleva esserla del rapporto servo-padrone tra gli anni di piombo e il craxismo, ecco, diciamo che è perlomeno in ritardo. Non solo per i tempi rapidi della politica, ma perché maneggiare il grottesco è talmente pericoloso che qui all’augurata indignazione di un pubblico sollecitato a riconoscere il male si passa subito alla compiaciuta risatina per i cliché di una maschera ormai caricatura di se stessa.

Se gli spettatori accorrono al cinema (e, certo, buon per gli esercenti) è proprio nell’ottica di una commedia scacciapensieri e non per assistere una vera, solida, divertente satira dei malcostumi politici. Servendosi della forma comica dell’apologo morale per invitare alla riflessione più seria, finisce, infatti, per traboccare di innocue banalità scambiate per punture sarcastiche e battute fin troppo prevedibili nell’orizzonte anacronistico di un personaggio che ha già detto tutto.

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